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Non vedo mio figlio da un mese. E il coronavirus fa capire (ancora di più) quanto sia prezioso il tempo

Editoriale - Lui, in quarantena nella zona rossa; io al di fuori. E quel tempo che scorre con la stessa violenza dei contagi stessi

«Sai papà, ieri abbiamo portato il caffè ai militari al posto di blocco. Sono molto gentili. Abbiamo anche fatto un selfie, ma mi hanno detto non lo puoi pubblicare». Jacopo ha 10 anni. È mio figlio. Vive con la mamma a Codogno, Wuhan d'Italia, epicentro del focolaio, o come diamine le definizioni giornalistiche in questi giorni hanno dipinto la cittadina. Insieme ad altri 50mila lodigiani della zona rossa, sta pagando il prezzo più alto di una crisi sanitaria senza pari nella storia recente d'Italia. Non lo vedo da oltre un mese. Mi manca molto. E mi sono messo il cuore in pace, visto che sarà ancora così a lungo. Forse l'intera Lombardia diventerà off-limits. Mai un'intera area, in Europa, era stata messa in quarantena. Ed è già un caso studio per tutto l'Occidente.

Check-point, esercito, provviste. Nelle nostre videochiamate serali echeggiano continuamente parole belliche, anche se lo racconta con il sorriso. Perchè non siamo in guerra, ma un avversario subdolo e infinitesimale miete vittime e dolore. Jacopo lo sa. Troppo piccolo, forse, per comprendere i meccanismi biologici del contagio, troppo grande per non capire che non è un gioco o uno scherzo. Le famiglie colpite sono tante in questa zona. C'è compostezza e quiete tra persone forti, ma lo scorrere delle lancette fa sentire il suo peso. E l'epidemia mette orrendi paletti, sbattendoci di fronte alla nostra solitudine: quanti, ora, sono in terapia intensiva senza il conforto di una persona cara. «Che dici pa'? Domenica c'è il 70% di probabilità che aprano la zona rossa e il 30% che la tengano chiusa?», «Credo tu sia un po' ottimista... », «Però è vero che i bambini sono meno colpiti?», e i dialoghi serali passano così, tra ipotesi fantasiose e calcoli demenziali, sperando che questo benedetto picco arrivi e spunti, da lontano, il lumicino della fine dell'incubo. Cosa hai mangiato, a cosa hai giocato, che film hai visto; dirsi tutto per dirsi niente, una mano che sorregge la parvenza di normalità. 

Certo, Jacopo non è in carcere. Passeggiando a fianco della ciclabile arriva all'azienda agricola dei nonni; le giornate scorrono all'aperto, tra un tiro al pallone e un giro nei campi in monopattino. I compiti arrivano via whatsapp e sul registro elettronico. L'anno non sarà perso e c'è spazio per ripassare, riflettere, ragionare sulle cose non comprese a inizio quadrimestre. Ha iniziato perfino a leggere di buona lena, cosa indigesta nella routine quotidiana, tra allenamenti e libri di scuola obbligati. Manca il calcio, mancano gli amici, non c'è il rumore chiassoso dei compagni che entrano in aula. Ma nelle chat di paese ci si fa forza, ci si incoraggia, è un momento e come ogni momento, per definizione, passerà. Se ne esce in un unico modo: non bisogna vedere altre persone. E troppi, fuori dalla zona rossa, non lo capiscono. 

Negli scorsi giorni le maestre hanno chiesto ai bambini di rappresentare, in disegno, il virus. O meglio, questo periodo particolare. Ci sono lavori commoventi, i ringraziamenti alle forze dell'ordine, ai medici e a chi in questo momento è malato e sta lottando. Jacopo ruota il punto di vista: ha disegnato un aereo. «È un Airbus 340», mi ha detto convinto. La compagnia è Coronavirus Air e la destinazione è Saturno. Come a dire: caro coronavirus, sei atterrato, hai fatto danni, ora via, lontano da questo nostro mondo. Non credo potrà mai atterrare e sopravvivere sul gigante gassoso. Ma di sicuro il visto sul suo passaporto, a Codogno, è scaduto da un pezzo. 

Il disegno sul coronavirus di Jacopo R.-2

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