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Cronaca

Condannata a 9 anni Fatima, la foreign fighter italiana: ma lei potrebbe essere già morta

Maria Giulia Sergio lasciò la sua residenza di Inzago, nel Milanese, per raggiungere la Siria

La corte d'Assise d'appello di Milano ha condannato a 9 anni Maria Giulia 'Fatima' Sergio, confermando così la pena inflitta in primo grado alla foreign fighter italiana. Confermate anche per gli altri imputati le pene inflitte in primo grado, tra cui 10 anni al marito di Fatima, l'albanese Aldo Kobuzi.

Maria Giulia Sergio, la prima foreign fighter italiana che nel settembre 2014 lasciò la sua residenza di Inzago, nel Milanese, per raggiungere la Siria a unirsi alle milizie del Califfato con il nome islamico di Fatima, così come lo hanno descritto i giudici della Corte d'Assise di Milano nelle motivazioni della sentenza che, il 19 dicembre scorso, aveva portato alla sua condanna a 9 anni di carcere per terrorismo internazionale.

Nel provvedimento, il collegio presieduto da Ilio Mannucci Pacini si era soffermato soprattutto sull'azione di "coinvolgimento dei propri familiari" compiuta da Fatima attraverso una serie di messaggi e chat inviati dai territori del Califfato: "E' a seguito delle sue insistenze, e alla sua offerta di aiuto nell'organizzazione del viaggio, che questi avevano deciso di raggiungere i territori dell'Isis".

Un'insistenza "spesso connotata da toni aggressivi e comunque perentori" e da tale "forza persuasiva" che secondo i giudici milanesi dimostra come il reale obiettivo di Fatima non fosse quello di "organizzare semplicemente un viaggio di ricongiungimento familiare". La foreign fighter, "voleva che anche i suoi familiari rispondessero alla chiamata individualizzata al jihad lanciata dai vertici dell'Is, fornendo il proprio contributo personale". Non a caso "più volte aveva loro ricordato che nell'impossibilità di raggiungere la Siria avrebbero dovuto attuare il jhiad in Italia e che qeusto consiteva nell'uccisione dei miscredenti".

Fatima, che secondo la sorella Marianna sarebbe "morta in Siria", è ancora ufficialmente latitante insieme al marito, l'albanese Albo Kubuzi, andato con lei in Siria e condannato a 10 anni di carcere. In arresto, nel blitz del luglio 2015, erano finiti anche il padre, Sergio Sergio, condannato a 4 anni per pianificazione di viaggio finalizzato al terrorismo, e sua sorella Marianna, condannata a 5 anni e 4 mesi in abbreviato. La madre, Assunta Buonfiglio, pure lei arrestata, è invece morta a ottobre 2015 prima dell'inizio del processo.

Tutti stretti familiari che, nelle intenzioni di Maria Giulia, "avrebbero dovuto attuare il jhiad in nome di Allah, seguendo l'esempio dei mujahidin, disposti a lasciare tutto per uccidere i miscredenti". Ma all'interno dell'organizzazione, il "ruolo più significativo", secondo la Corte d'Assise di Milano, era quello ricoperto dal marito di Maria Giulia, l'albanese Kobuzi, "che, una volta in Siria, è divenuto un mujhaed", ossia il "massimo grado di partecipazione richiesta dall'Isis ai propri affiliati". E' per questo che all'albanese sono stati inflitti 10 anni di carcere, pena che coincide con "il massimo edittale" previsto. Le condotte di Fatima, precisano i giudici milanesi a questo proposito, sono state "fisicamente meno violente" di quelle del marito soltnato per effetto della "netta divisione dei ruoli che l'Is impone ai propri uomini e alle proprie donne".

La madre e la sorella dell'albanese, Donica Koku e Seriola Kobuzi, entrambe latitanti, vennero invece condannate a 8 anni perchè entrambe "hanno liberamente scelto di raggiungere la Siria per dare il proprio supporto alla più pericolosa organizzazione terroristica esistente". E mentre la prima "è responsabile di aver convinto Aldo Kobuzi a raggiungere il Califfato", la seconda "aveva messo i propri figli a disposizione dell'organizzazione terroristica che ne avrebbe fatto, inevitabilmente, dei mujhaeddin".

Quanto, infine, al padre di Maria Giulia, Sergio Sergio, "si è visto come la sua decisione di organizzare il viaggio per raggiungere la Siria con la propria famiglia fosse maturata in un contesto di continue e forti pressioni poste in essere dalle figlie". Inoltre "l'imputato ha più volte manifestato ripensamenti prima di decidere di organizzare definitivamente il viaggio" e "di ciò deve tenersi conto". Da qui la decisione della Corte d'Assise di Milano di concedergli le attenuanti generiche e di condannarlo a 4 anni di carcere, è morto a novembre mentre veniva sorvegliato in un ospedale.

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