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Cronaca

Rocchelli: l'italo-ucraino arrestato per la morte del fotogiornalista non risponde al gip

L'interrogatorio di garanzia a Pavia. Ecco come gli investigatori sono arrivati a lui

Si è avvalso della facoltà di non rispondere Vitaliy Markiv, l'italo-ucraino di 28 anni interrogato nella mattinata del 4 luglio dal gip di Pavia, arrestato il 30 giugno con l'accusa di avere ucciso il fotogiornalista Andrea Rocchelli e il suo interprete Andrej Mironov oltre ad avere provocato il ferimento del giornalista francese William Rougelon nei dintorni di Sloviansk, in Donbass, il 24 maggio 2014, in quello che gli investigatori ritengono un agguato a colpi di mortaio, durante gli scontri tra i battaglioni ucraini e i separatisti filo-russi.

Il giovane è stato assistito da Simona Bozzi, del Foro di Pavia, nominata d'ufficio, ma sta cercando un avvocato di fiducia che segua il caso.

Il 30 giugno, al momento dell'arresto, Markiv era appena atterrato all'aeroporto di Bologna: come hanno poi spiegato le autorità ucraine, era in vacanza e aveva deciso - con la moglie - di tornare nelle Marche, dove aveva vissuto fino al 2013, per fare visita alla madre.

Le stesse autorità ucraine, e in particolare il ministero della difesa, hanno confermato che l'esercito ucraino e i battaglioni non erano affatto dotati di mortai, e che le armi in dotazione non avevano la gittata necessaria (oltre un chilometro) dalla collina di Karachun, unico avamposto sotto il controllo del governo a Sloviansk in quel momento. Come vedremo, questo dettaglio viene messo in dubbio dalle parole che un capo, successivamente identificato in Markiv, ha rilasciato a due giornalisti italiani nella stessa giornata dell'uccisione di Rocchelli e Mironov.

Ma come sono arrivati gli investigatori a individuare Vitaliy Markiv?

Il testimone oculare e i giornalisti italiani

Le accuse a Markiv si fondano sui racconti di tre persone: William Rougelon (unico testimone oculare) e due giornalisti italiani che si sono recati più volte in Ucraina negli ultimi anni, Marcello Fauci e Ilaria Morani. Il francese ha parlato con gli investigatori il 7 aprile: la sua testimonianza, stando all'ordinanza del gip di Pavia, è servita per determinare che gli spari provenissero dal settore ucraino.

Rougelon è sicuro di questo perché, fuggendo dopo la fine degli spari, dalla parte opposta ha incontrato miliziani separatisti. Quindi, secondo lui e l'accusa, quelli che sparavano dovevano essere per forza di parte governativa. Ma la testimonianza del francese è servita anche per determinare la natura dell'agguato.

Il giornalista sopravvissuto ha raccontato che gli spari, dapprima indirizzati verso l'automobile, avevano cambiato direzione verso il fossato in cui il gruppo si era rifugiato. E che provenivano di sicuro da più d'una persona. Dunque, conclude l'accusa: agguato volontario contro persone che in mano non avevano armi bensì macchine fotografiche.

Quanto a Fauci e Morani, si trovavano in Donbass, e lo stesso 24 maggio telefonarono ad un loro informatore, che sapevano essersi unito alle forze ucraine nella zona di Sloviansk. Morani, sul Corriere della Sera del 25 maggio, riportò questo virgolettato attribuito all'informatore: «Qui non si scherza, non bisogna avvicinarsi: questo è un luogo strategico per noi. Normalmente noi non spariamo in direzione della città e sui civili, ma appena vediamo un movimento carichiamo l'artiglieria pesante. Così è successo con l'auto dei due giornalisti e dell'interprete. Noi da qui spariamo nell'arco di un chilometro e mezzo. Qui non c'è un fronte preciso, non è una guerra come la Libia. Ci sono azioni sparse per tutta la città, attendiamo solo il via libera per l'attacco finale».

A novembre 2016 i magistrati hanno sentito i due giornalisti italiani, che hanno confermato il contenuto della conversazione. Fauci ha anche aggiunto che l'informatore aveva detto di trovarsi proprio sulla collina dell'antenna televisiva.

A parlare è quindi un "capo" militare, e parla di "artiglieria pesante", che invece le autorità ucraine hanno sempre negato fossero a disposizione dell'esercito e dei battaglioni. 

«Non potevano non sapere che si trattava di giornalisti»

Quindi gli investigatori, a questo punto, sembrano essere certi di tre elementi: gli spari provenivano dalla collina in mano agli ucraini; questi avevano artiglieria in grado di sparare a un chilometro e mezzo di distanza; un capo militare (o comunque qualcuno che aveva la responsabilità di alcuni uomini) ha ammesso che «così è successo con l'auto dei due giornalisti e dell'interprete».

Attenzione: quel capo (che non viene subito identificato perché Morani e Fauci oppongono, a novembre 2016, il segreto professionale) sembra ammettere gli spari all'auto, ma nulla dice dell'agguato successivo verso il fosso.

Per gli investigatori, poi, non ci possono essere dubbi sul fatto che il capo di quel gruppo avesse una qualche responsabilità, visto che si è trattato di una azione «così articolata - scrive il gip - e durata un apprezzabile arco temporale».

E inoltre - sempre secondo il gip - chiunque abbia sparato non poteva non sapere che si trattava di giornalisti o, comunque, non si trattava certo di paramilitari di opposta fazione. Infatti - secondo il racconto di Rougelon - i tre (più l'autista) erano scesi dall'auto e si erano messi a scattare fotografie, prima di essere raggiunti da una quinta persona (tuttora ignota) che ha detto loro che dovevano andarsene al più presto perché era troppo pericoloso stare lì, finché non sono iniziati gli spari e tutti e cinque si sono rifugiati nel fosso. Questo è un punto da tenere a mente quando successivamente si parlerà del racconto del francese in dettaglio.

Come si arriva a Markiv

Ma come si arriva a identificare Vitaliy Markiv nel comandante del plotone che avrebbe fatto fuoco contro i cinque? Il primo indizio è stato fornito da Fauci che, pur opponendo il segreto professionale sul nome, ha spiegato ai magistrati di avere conosciuto l'informatore a Kyiv durante Maidan e che parla italiano con accento emiliano, e di essere in contatto con lui tramite Facebook.

E tra le persone con cui, su Facebook, sono in contatto sia Morani sia Fauci c'è proprio Markiv, che ha vissuto in Italia fino a fine 2013 (ecco perché parla italiano) e, sul popolare social network, pubblica suoi scatti in divisa. 

Infine, intercettando la madre e il suo compagno italiano, gli investigatori hanno avuto conferma che Vitaliy Markiv sia impegnato in combattimenti in Donbass e abbia anche un ruolo da comandante. Il cerchio si chiude e a Fauci viene chiesto di riconoscere una fotografia di Markiv. E' il 10 giugno. 

L'Ucraina a fianco di Markiv

Il vice procuratore generale ucraino, Eugene Enin, si è subito detto «sorpreso» dell'arresto di Markiv e ha aggiunto che le indagini finora svolte dalle autorità ucraine portano invece alla pista dei separatisti filo-russi, anche per via della gittata delle armi in dotazione agli ucraini tra cui, come poi confermato anche dal ministero della difesa, non vi erano mortai.

"Pesano", però, le parole riportate da Morani sul Corriere della Sera nell'immediatezza del tragico evento, attribuite poi a Markiv, che parlano di artiglieria pesante, di gittate fino a un chilometro e mezzo e, espressamente, dell'auto «dei due giornalisti».

Naturalmente questa dichiarazione non è sufficiente a indicare la colpevolezza: il giovane sarà chiamato a confermarla o smentirla, potrà sempre dire di avere parlato in generale o addirittura per vantarsi oltremodo del suo ruolo paramilitare (all'epoca era in un battaglione volontario), senza dimenticare che questi battaglioni, come ordine di "servizio", avevano il divieto assoluto di sparare per primi. Nulla si può dire adesso: occorre attendere.

Il mistero del quinto uomo

La presenza del quinto uomo nel fosso in cui si erano rifugiati Rocchelli, Mironov, Rougelon e l'autista è tuttora un mistero che l'ordinanza del gip non dipana più di tanto. Si tratta di una persona che si è salvata ma che non è mai stata rintracciata. Il suo volto è emerso con la scoperta degli ultimi scatti di Rocchelli, che sono stati messi in mostra anche a Milano nel corso del 2017. 

Di lui sappiamo soltanto ciò che Rougelon racconta ai magistrati. Vediamo in dettaglio. Giunti in un punto apparentemente tranquillo vicino alla fabbrica di ceramiche Zeus, lui, Rocchelli e Mironov scendono dalla vettura e si dividono per scattare fotografie, procedendo verso un treno distrutto dai filo-russi con i vagoni messi in mezzo alla strada per bloccare l'avanzata dei regolari ucraini. Ad un certo punto, mentre camminano verso i vagoni, li raggiunge anche l'autista. La fabbrica è alla loro sinistra, dice Rougelon.

Dopo circa dieci minuti compare una persona «dalla nostra sinistra», vestita con una tuta e scarpe da ginnastica, che manifesta «molta paura». Mironov gli va incontro per parlare con lui. Poi torna - è sempre il racconto di Rougelon - e dice a tutti che occorre «partire subito e sparpagliarsi». I cinque camminano in fila indiana, distanziati di cinque metri l'uno dall'altro. In questo momento sono già stati avvertiti di un pericolo e stanno camminando verso l'auto per andarsene: si può immaginare che a tutto pensino tranne che a scattare fotografie. Ma un certo punto partono gli spari. Per Rougelon provengono dalla parte opposta alla fabbrica. Il gruppo si ripara allora dentro un fosso.

Il resto è noto, tranne che fine abbia fatto il misterioso individuo che, come si vede, ha in qualche modo "avvertito" gli altri dell'imminente pericolo che poi, effettivamente, si è materializzato. Ma chi è e da dove proveniva? Come sapeva che di lì a poco sarebbero partiti gli spari? Se davvero proveniva «da sinistra», cioè dal lato della fabbrica («alla nostra sinistra»), proveniva quindi dalla zona dei separatisti?

Solo Mironov ha parlato con lui, per cui non sapremo mai - finché non verrà rintracciato e identificato - chi fosse, quali fossero le sue intenzioni reali, perché si trovasse lì e perché aveva detto al gruppo di andarsene al più presto, mettendosi peraltro lui stesso in pericolo. 

Una domanda, però, ci pare legittima: la magistratura italiana lo sta cercando?

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