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Milano Centro Chinatown / Via Paolo Sarpi

La "guerra" dei portali cinesi in via Sarpi

Sonego (Rifondazione) e De Corato (Fdi): "Non creiamo ghetti". I comitati continuano a sostenere che la zona "non è una Chinatown". L'assessore D'Alfonso

Le posizioni sulle "porte del dragone" all'inizio e alla fine di via Paolo Sarpi restano inconciliabili. E pazienza se si tratta di strutture mobili che verrebbero smantellate alla fine di Expo. E pazienza se altre ben note Chinatown, come Gerrard Street a Londra, oltre alle porte hanno anche le pagode e i nomi delle vie in duplice lingua. E pazienza se Gerrard Street ha una storia molto più recente di insediamento cinese rispetto a via Paolo Sarpi, dove i primi arrivarono intorno al 1920. E pazienza se Gerrard Street in quanto Chinatown è stata 'costruita' pazientemente dall'opera del consiglio comunale di Londra, dei residenti (cinesi e inglesi) e delle associazioni, che hanno lavorato insieme in vista della potenzialità turistica, non certo della creazione di un ghetto che non esiste.

A Milano le porte evidentemente sono impossibili. Il centrodestra vi si oppone con forza. Le associazioni di residenti italiani, stessa cosa. "Fissare la discussione su un simbolo è un modo per non risolvere i problemi", spiega Franco D'Alfonso, assessore al turismo e marketing territoriale, centrando in pieno la questione: non sono certo le porte a connotare (o non connotare) un quartiere.

Se n'è discusso in commissione attività produttive, dove è andata in scena un'altra 'puntata' (l'ennesima in questo aprile) dello scontro a sinistra. Anita Sonego (Rifondazione), residente in zona Sarpi, si è lamentata che non ci fossero rappresentanti della comunità cinese e ha manifestato il timore di "accordi fatti altrove". E poi, ancora: "Milano non ha mai avuto ghetti, perché vogliamo crearne uno adesso?".

La parola ghetto, in verità, andrebbe usata con molta cautela. Due portali completamente aperti, infatti, non sono affatto come porte di un ghetto ma semmai ornamenti. Giustamente D'Alfonso ha sottolineato che nella cultura cinese la porta è simbolo d'apertura e non di chiusura.

I comitati di quartiere sono però molto agguerriti. Da ViviSarpi fanno sapere che, col portale, "si va a marchiare un quartiere che invece è stato sempre aperto ad accogliere chiunque". Riccardo De Corato (Fratelli d'Italia) prende la palla al balzo: "La maggioranza ha detto che vuole chiedere diversi pareri sulla questione, ma a chi altro deve chiederli se i comitati di quartiere hanno già detto che non se ne parla?".

Come se via Paolo Sarpi fosse "di proprietà" dei comitati di residenti. Salvo poi, magari, creare iniziative ad hoc per il tempo libero, sperando che ci arrivino i milanesi degli altri quartieri. Il proliferare dei comitati è un modo sano d'intendere la vita comunitaria cittadina, a patto però che non si esageri nell'auto-appropriazione dei diritti sulla decisione delle politiche di ampio respiro, com'è per esempio il marketing territoriale.

Nessuna via, infatti, formalmente appartiene ai suoi abitanti, e c'è un motivo. Le strade, come le piazze, appartengono alla cittadinanza, così come agli "stakeholders", che per esempio sono i turisti. Affermare che, col parere contrario dei comitati, l'argomento è chiuso, significa interpretare la città come una somma di tanti piccoli quartieri affiancati l'uno all'altro, in ciascuno dei quali "comanda" la voce dei residenti. Tutto il contrario del concetto stesso di sistema urbano.

E a proposito di residenti. I cinesi, nel "Nil" (Nucleo d'identità locale) di Paolo Sarpi, sono il 41% degli stranieri. Si parla di oltre 2 mila residenti all'anagrafe su quasi 5 mila stranieri. La seconda cittadinanza, quella filippina, ha un quarto di residenti di quella cinese. Una concentrazione del genere non si trova in nessun'altra area di Milano. E' la riprova (oltre alla sedimentazione storica della comunità cinese in via Paolo Sarpi) che questa è una vera e propria Chinatown, in senso sociologico, anche se i comitati di quartiere pensano di no.

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