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Venerdì, 29 Marzo 2024
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Da clandestino a scrittore milanese, la storia di Eltjon: "Salvini? Alcune sue idee sono giuste"

Arrivato in Italia dall'Albania con il gommone, oggi Eltjon Bida vive a Milano dove ha pubblicato il suo primo libro e trovato l'amore della sua vita. Su Salvini dice: "Alcune proposte mi piacciono"

Un uomo dallo sguardo sincero, l'aspetto estremamente curato e un sorriso larghissimo. Così si presenta Eltjon Bida, ex clandestino arrivato a Milano dall'Albania con il gommone nel 1995 e oggi scrittore. MilanoToday l'ha incontrato per sentire la sua storia, da quando dormiva nei vagoni del treno e faceva la fila per mangiare alla Caritas di Milano, fino alla realizzazione del suo più grande sogno: diventare scrittore. Bida ha infatti appena pubblicato il suo primo libro, 'C'era una volta un clandestino' (edizioni Policromia, PubMe), ispirandosi ai suoi primi due anni nel nostro Paese. Il risultato è un racconto di integrazione incredibilmente felice. Ma assolutamente vero. 

Come è arrivato in Italia? Perché ha deciso di farlo? Quanti anni aveva?

«Sono partito dalla mia cittadina, Fier, nel 1995, quando avevo 17 anni. Ho deciso di venire in Italia per due motivi. Al 50% perché avevo un problema renale e in Albania, nonostante avessimo girato molti ospedali e sborsato un sacco di soldi, non si riusciva a risolvere. L'unica proposta dei medici infatti era stata quella di operarmi facendomi un taglio di 30 centimentri, in seguito al quale avrebbero valutato se tenere il rene o meno. Anche a una mia cugina avevano asportato un rene e all'epoca si parlava molto di vendita degli organi. Quindi c'era tanta paura. Il restante 50% era la voglia di vivere in un paese che per noi era come l'America».

Cosa rappresentava l'Italia per gli albanesi degli anni '90?

«L'Italia per noi era il paese dei sogni. Si diceva che in questo Paese si lavorava bene, si mangiava bene e c'era rispetto per gli operai. Quelli che tornavano dopo essere emigrati erano molto contenti e alimentavano la voglia di chi era rimasto di partire a sua volta». 

Come è stato il viaggio per arrivare in Italia?

«Io non volevo partire col gommone. Sapevo quando fosse rischioso. Anche perché poco prima due nostri cugini erano morti proprio nel tentativo di raggiungere l'Italia. Quindi ho fatto un primo tentativo con la nave, usando documenti falsi. Ma sono stato scoperto e rimpatriato. Ricordo che ero con mio padre e gli ho detto che non avevo intenzione di tornare al nostro paesino. Perciò ho provato con il gommone. Ho fatto il viaggio da solo, dopo aver pagato un milione di vecchie lire. Eravamo in 26 su un gommone da sei posti. Quando ho visto le dimensioni di quella imbarcazione mi ha preso il terrore. E mi sono venuti in mente i due cugini inghiottiti dal mare. Non abbiamo più saputo nulla di loro ma all'epoca si diceva che ad ammazzarli erano stati gli scafisti, che dopo essersi accorti che il gommone stava imbarcando acqua, gli avrebbero sparato per poi buttarli in acqua e così alleggerire il gommone. Io sono stato molto fortunato, il mare quando sono partito io era piatto. Nonostante qualche onda tutto è andato bene. Quattro ore dopo la partenza ero in Italia».

E una volta nel nostro Paese come ha vissuto?

«All'inizio sono arrivato in Puglia. Poi in Abruzzo sono stato accolto dal fidanzato italiano di mia cugina. Loro in realtà si erano già lasciati ma lui mi ha comunque ospitato. Ero molto contento, perché avevo un tetto sulla testa, da mangiare e aiutavo quell'uomo in campagna, con i pomodori e gli animali. A Milano invece sono arrivato perché stavo cercando mio fratello. In città era molto diverso, non avevo dove stare e insieme a mio fratello ho iniziato a dormire nei vagoni del treno e a mangiare alla Caritas. Quattro mesi dopo ho trovato lavoro come venditore porta a porta. Ogni mattina andavamo da Pane Quotidiano a fare colazione. Nemmeno nei momenti più difficili ho perso la speranza di migliorare. Io sono convinto che chi si comporta bene viene amato. Nessuno lo rifiuta. Ero sicuro che prima o poi avrei trovato lavoro e mi sarei sistemato».

Eltjon con sua moglie

(Eltjon e sua moglie)

Era venuto a Milano alla riceca di suo fratello che non si trovava più

«Più piccolo di me di qualche anno, mio fratello era partito anche lui in gommone per arrivare in Italia. Ma di lui non si avevano notizie da mesi. E mia madre lo piangeva pensando fosse morto. Io volevo tranquillizzarla e sono venuto a Milano. Anche perché lui aveva 16 anni ed era un po' ingenuo. Ci siamo incontrati per puro caso il primo giorno che ero qui. Io stavo salendo le scale della stazione della metropolitana per andare in piazza Duomo. Lui stava scendendo la stessa rampa. L'ho riconosciuto per la sua camminata particolare, un po' alla 'body builder'. Io sono scoppiato in lacrime e l'ho subito abbracciato. Lui era molto distaccato invece» .

Quali sono le maggiori difficoltà per chi vive in stato di clandestinità?

«Il maggiore ostacolo è non integrarsi. Se non ci sforza non si va mai avanti. Invece se si lavora, ci si comporta bene, si fanno amicizie italiane, allora si avanza».

Come pensa sia cambiata la situazione da quando lei è arrivato in Italia a ora?

«Prima si parlava male degli albanesi adesso si parla male in generale di tutti gli stranieri. Quindi non c'è differenza. Io andavo sempre a testa alta però, perché sapevo che c'erano dei miei connazionali che erano comunque apprezzati. La situazione dei clandestini di oggi, secondo me, è diversa per un motivo. Noi che siamo arrivati degli anni '90 avevamo voglia di lavorare ed eravamo disposti a tutto. Oggi si ha una mentalità più assistenzialista: si ha l'idea che lo Stato debba mantenere tutti. Io credo invece che non spetti allo Stato mantenere gli stranieri. È vero però che all'epoca c'era anche meno sfruttamento. Noi guadagnavamo un po' meno degli italiani - ed era giusto così perché non sapevamo la lingua - ma non così tanto. Ora invece, in Puglia ad esempio, ci sono condizioni terribili».

Cosa pensa del ministro dell'Interno, Matteo Salvini?

«Credo che abbia delle idee chiare ma che dovrebbe andare contro chi ruba e contro chi spaccia al di là della sua provenienza. Alcune sue proposte mi piacciono. Ma secondo me dovrebbe schierarsi contro i criminali di tutte le nazionalità».

La sua è una storia di immigrazione felice. Cosa ha fatto la differenza rispetto a tante altre storie tristi?

«A fare la differenza è la voglia di non mollare mai e di cercare lavoro, rispettare le regole di questo Paese. In campagna oggi c'è lavoro. Ma molti non lo vogliono fare».

Come le è venuta l'idea di scrivere il suo libro?

«Tutti i miei amici sentendo la mia storia mi dicevano 'dovresti scrivere un libro'. All'inizio io non leggevo molto, il comunismo non ti insegna ad acculturalti, anzi gli interessa mantenerti sempre allo stesso livello. È stata mia moglie a introdurmi ai libri. La lettura mi ha subito affascinato moltissimo. Poi ho iniziato a scrivere».

Com'è la sua vita oggi?

«Felice. Sto vivendo un sogno perché ho finito di scrivere un secondo libro e ora ne sto scrivendo un terzo. Fino alla prossima estate mi dedicherò esclusivamente alla scrittura. Da novembre ogni giorno mi alzo alle 5 e inizio a scrivere, poi vado avanti fino a sera tardi, con delle interruzioni necessarie: ho due bambini, di 8 e 11 anni, e mi piace essere un papà e un marito presente. Negli ultimi 13 anni ho lavorato come receptionist in un albergo. Prima ancora, per 7 anni, ero dipendente di una ditta di arredamento, ma nel frattempo frequentavo corsi di lingua, inglese e spagnolo, per riuscire a lavorare in hotel. Da un anno prendo anche lezioni di russo, e me la cavo. Io oggi sono molto felice e apprezzo tanto quello che ho adesso - la mia bella famiglia, il lavoro dei miei sogni - ma proprio perché ho vissuto quello che ho vissuto».

Cosa direbbe ai clandestini di oggi?

«Vorrei che questo mio libro fosse la testimonianza che comportandosi bene e sforzandosi di integrarsi si può arrivare lontano. La mia storia testimonia di come, con l’onestà e il desiderio d’integrarsi, si può arrivare lontano. È vero, io sono stato molto fortunato. Ma nessuno ti dà niente, nessuno ti regala niente». 

Lei adesso si sente italiano e addirittura milanese?

«Quando sono in Italia, mi sento italiano, quando sono in Albania, albanese. Sono qui da 24 anni e da tre anni ho la cittadinanza. Mi sento anche un po' milanese. Perché ho vissuto in questa città per molto tempo e poco dopo essere arrivato sono ospitato da una famiglia di questa città. La signora che gestiva la pensioncina dove mi sono trovato a dormire una notte, mi ha offerto di imbiancarle l'albergo. Finita l'imbiancatura, mi ha dato altri lavori in cambio dell'alloggio: 'aggiustatutto', dog sitter, giardiniere. Questa signora milanese è stata come una seconda mamma per me. Mi ha anche trovato il mio secondo lavoro. E grazie a lei ora capisco anche il dialetto milanese».

Parte dei proventi della vendita del libro saranno destinati a Pane Quotidiano.

«Il 10 % delle vendite saranno destinati a questa associazione, che per me è stata fondamentale. A me e mio fratello dava colazione e cena. O comunque due pasti al giorno. Il 99% delle volte si mangiava pasta al pomodoro e noi la adoravamo. In Albania all'epoca non esisteva».

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