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"Piango sotto la doccia quando sono sola": la giornata di una soccorritrice in prima linea

Su e giù dalle ambulanze accanto a chi chiede aiuto per non morire di Coronavirus. Ecco la testimonianza di Giulia, soccorritrice della Croce Rossa di Cinisello Balsamo

Giulia Trapanotti, classe 1980, lavora come volontaria presso la Croce Rossa di Cinisello Balsamo. Ha sempre raccontato il suo lavoro con disinvoltura, come se fosse facile. Eppure quando la si incontrava, il giorno dopo una nottata in servizio, si percepiva la sua stanchezza. Da brava professionista quale è non ha mai detto a nessuno, per non violare la privacy, ciò che accedeva in quelle lunghe notti. Pur conoscendola bene, non osavo chiamarla io, in veste di giornalista: mi sembrava troppo chiederle, in questo momento di emergenza a causa del Covid-19, di intervistarla. Mi sembrava di rubarle tempo e le poche energie che le rimangono nei rarissimi attimi di libertà. Ieri invece mi ha scritto lei. Un messaggio disperato: «Per favore, dammi voce, la gente deve capire». Ma non ho fatto in tempo a preparare domande perché lei mi aveva già mandato una sua dichiarazione. Intensa e vera. Non credo si possa o debba aggiungere altro. Dettagli pruriginosi o tecnici servirebbero a poco. Quello che sta accadendo e che ancora in troppi vogliono ignorare è già insito nelle sue parole, che vi riporto, senza cambiare nulla, senza fiato. Per dare voce a Giulia e a tutti i soccorritori della Croce Rossa.

I pensieri scorrono veloci, chiama la centrale e comunica che il paziente è un sospetto Covid e che bisogna procedere come da protocollo. Sali in ambulanza e cerchi con una battuta di smorzare la tensione, per non far trasparire i pensieri, compili la parte burocratica, la sirena è accesa. Le strade quasi deserte, gli sguardi dei pochi in giro che ci vedono passare sono eloquenti, puoi quasi leggerli: "Eccone un altro!".

Arriviamo sul posto, inizia la vestizione, capisci in quel momento quanto la tua squadra tema per te. La tuta, i calzari, la mascherina, gli occhiali, i guanti. Mi controllano, controllano che non resti esposta neanche una parte minuscola del mio corpo. I pensieri in quegli istanti si affollano: fino ad un mese fa, sui pazienti arrivavamo insieme, in tre, e ci davamo forza a vicenda ed era tutto più facile, ora ci sono io da sola a fare quella strada, la stessa. Mi accompagnano fino al portone, come per rassicurarmi."Noi ci siamo". Respiro piano, per evitare che gli occhiali si riempiano d’aria tanto da non farmi vedere più nulla. In ascensore la parte più difficile forse, evito sempre di guardarmi allo specchio, continuo a cercare di gestire il respiro. Sento tutto di me, i battiti del cuore che aumentano con il respiro. Alla porta c’è sempre qualcuno che mi aspetta, con lo sguardo spaventato. Prima potevano guardarci in faccia tra colleghi e trovare un minimo di sollievo nei nostri occhi, e abbiamo sempre scherzato: "Quando ci vedono stanno già meglio", ci chiamano "gli angeli". Ora no, ora facciamo paura nascosti in quelle tute e con la faccia coperta. Il paziente ha la febbre da settimane, comincia a respirare a fatica. Il sospetto diventa quasi certezza. Cerco di tranquillizzarlo come posso, sente a fatica la mia voce, con la mascherina le parole fanno fatica ad uscire. Lo porto giù con me, sotto braccio come sempre, perché a distanza non sono capace. Siamo soli, nessun parente può seguirci, sono io la sua persona adesso, cresce la paura. Comunico al resto dell’equipaggio di sedersi davanti e di chiudersi, trovo il portellone aperto, ora li sento più vicini. Salgo con il paziente, cerco di non farlo sentire un appestato, cerco di parlarci come faccio sempre, ma entrambi facciamo fatica. Io comincio ad accusare la mascherina e gli occhiali in faccia, devo controllare il mio respiro, rischio di esplodere e strapparmi tutto di dosso. E arriva, inesorabile, il momento in cui penso: "Ho fatto tutto correttamente?", "Ho protetto il mio equipaggio?", "Mi sono protetta abbastanza?".

Voliamo verso il pronto soccorso. Lo sguardo del paziente è sempre più spaventato, mi chiede: "E ora cosa succede?", "Cosa mi fanno?", "Dove mi porti?". Ma io di risposte non ne ho, vorrei poter dire quello che dico sempre: "Oggi non è il tuo giorno", ma non ci riesco, perché oggi non lo so più se non è il tuo giorno e non riesco a mentirti, perché i miei occhi non mentono.

Arriviamo in ospedale, abbiamo un percorso privilegiato, lo chiamano "Percorso sporco", ci entriamo insieme in quel percorso e i passi diventano più pesanti, non ne posso più di questa tuta e della mascherina, non respiro più. Arriviamo in sala d’attesa, sgraniamo gli occhi, ne vedo almeno altri 20, sembra un film, sento tossire, flebo attaccate, sembra un film. È ora di salutarci, devo andare e non so come dirglielo, ci guardiamo per l’ultima volta, una mano sulla spalla. Vado via, vorrei correre per uscire più in fretta, ma devo muovermi piano, sono allo stremo delle forze, devo respirare.

Arrivo fuori, torno dai miei, torno "a casa", non posso ancora strapparmi tutto, devono aiutarmi. Lo facciamo piano per fare le cose con la testa, via la tuta, via gli occhiali, via la mascherina, l’aria, sento l’aria sulla faccia, respiro, posso farlo ora.

Finisce così un altro turno, ore in cui le emozioni sono forti e lasciano il segno. Arrivo a casa, stanca provata e mentre scorre l’acqua della doccia, sento un’ambulanza che passa e il pensiero è: "Eccone un altro" e le lacrime si mischiano all’acqua, chiudo gli occhi. Finirà... Andrà tutto bene. Finirà".

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