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Carlo e l'abbraccio col figlio dopo il Covid: la foto ai medici di Niguarda che l'hanno salvato

La storia di Carlo, un 39enne che ha potuto abbracciare suo figlio solo dopo una settimana

La febbre che non scende. I dolori che diventano sempre più forti, insopportabili. Poi il ricovero e la carezza a quel pancione con la paura di non farcela. Quindi, il lieto fine e l'abbraccio più bello del mondo, senza dimenticare i suoi "eroi". 

Sì perché la storia di Carlo - 39enne siciliano da 7 anni milanese d'adozione - ha un lieto fine, che è tutto racchiuso in quell'abbraccio, stupendo, con suo figlio nato una settimana prima, mentre lui era in ospedale a lottare contro il Coronavirus, contro quel mal invisibile.  

La febbre e il ricovero

L'incubo inizia a marzo con le prime linee di febbre e dolori gastrointestinali. “Dopo alcuni giorni è comparsa anche una tosse secca - spiega il 39enne, tecnico informatico -, ero debilitato e non mangiavo, tra l’altro il cibo iniziava a non avere alcun sapore e anche la percezione dell’olfatto era distorta, ad esempio a letto avvertivo come un odore di umidità persistente che proveniva dalle lenzuola e questo mi dava nausea”.

Dopo dieci giorni, la situazione precipita e Carlo decide di chiamare i numeri di emergenza con il ricovero che scatterà di lì a breve. “Non nascondo che nell’attesa di avere una risposta ho salutato la mia compagna, ho messo la mano sul suo pancione e ho detto: «Ciao piccolo, mi dispiace se non ci sarà modo di conoscerci» - ricorda oggi il neo papà -. In quel momento è quello che ho pensato mentre mi rimettevo a letto stremato”.

“Ricordo il trasporto, in un silenzio surreale, assordante", al Niguarda, "era dieci giorni che non mettevo il naso fuori di casa e in giro non c’era nessuno sembrava di essere in una serie tv post-apocalittica”, racconta Carlo. Gli esami confermano la diagnosi e il 39enne viene spostato nel reparto di malattia infettive. “I trattamenti con i farmaci antivirali non sono stati una passeggiata e hanno portato con sé diversi effetti debilitanti però per fortuna hanno dato l’effetto sperato. E il miglioramento dopo 5 giorni mi permette di uscire da quel reparto in cui la doppia porta di isolamento e gli operatori vestiti in stile Chernobyl trasmettono un senso di preoccupazione nonostante i modi rassicuranti e le attenzioni del personale. Inevitabilmente, chiuso da solo in una stanza così ti viene da chiederti, ma cosa sta succedendo, sto per morire?”, ammette Carlo. 

Il parto e l'abbraccio

Per fortuna le terapie funzionano e il tecnico informativo viene trasferito: "Io non mi toglierò mai dalla testa l’applauso che mi ha riservato tutto il personale quando sono uscito per essere trasferito nel reparto a bassa intensità. È stato emozionante". Lì "sono stati 14 giorni di coccole e la prima volta che ho provato a camminare è da raccontare. Quei 100 metri in corridoio in compagnia di un’infermiera che mi accompagnava, sulla sessantina: lei andava al doppio della velocità rispetto a me. Poi però c’è stato tutto il tempo per rimettermi in sesto e dei 6 chili di peso persi ne ho ripresi due. Intanto la data del parto si avvicinava e ogni giorno poteva essere quello buono. Tutti in reparto sapevano del mio piccolo in arrivo e mi chiedevano", prosegue Carlo. 

A inizio aprile Emanuele, il figlioletto di Carlo, nasce ma lui, evidentemente non c'è: "La mia compagna era là ed io qui, separati ed uniti solo dal telefono. È andato tutto bene e finalmente dopo un mese di distacco ho potuto rivedere la mia compagna. Mio figlio invece l’ho potuto tenere in braccio dopo una settimana dalla sua nascita. Ho voluto mandare la foto anche al personale di Niguarda, mi dicevano devi farcela anche per lui. Per fortuna - conclude Carlo - ce l’ho fatta”.

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