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Insegniamo la prudenza

Stiben Mesa Paniagua

Giornalista MilanoToday

Morire in bicicletta sotto un camion a Milano

Casco obbligatorio per i ciclisti, piste ciclabili, zone 30, accorgimenti per ridurre l'angolo cieco dei mezzi pesanti, restrizioni ma soprattutto tanta educazione stradale obbligatoria - pratica e teorica - nelle scuole

Potrei snocciolare i dati sugli incidenti mortali che negli ultimi mesi hanno coinvolto ciclisti e camion a Milano. Numeri che hanno un nome e un cognome. Nomi di persone che avevano una vita, un hobby, un lavoro, una famiglia. Mamme, papà, fratelli, sorelle, figli. Ma non avrebbe senso. Potrei anche dire che una parte significativa della città ogni volta si indigna, si rattrista, si arrabbia, protesta, marcia e chiede più sicurezza. Ma non cambierebbe molto. Potrei elencare tutte le bici bianche, le ghostbikes, diventate altari metropolitani alla memoria di questo o quell'altro ciclista 'caduto' mentre semplicemente si muoveva per le strade del suo quartiere. 'Caduti', come i soldati in battaglia. In quella guerra urbana e quotidiana che vede affrontarsi da una parte motori e carrozzerie e dall'altra pedali e, al massimo, caschetti. E anche in questo caso a poco servirebbe. Perché finché non cambierà radicalmente il modo di affrontare la questione ogni parola d'indignazione sarà come un ululato alla luna, incostante e volubile.

Da oltre dieci anni pedalo tutti i giorni per le strade di Milano. So perfettamente che ci sono orari e vie dove la quantità di mezzi motorizzati, anche solo per la densità, diventa un pericolo per chi come me viaggia su un mezzo leggero come la bicicletta. E in generale il binomio traffico intenso e fretta non sono mai una buona coppia. Facendo un veloce bilancio di questi anni devo ammettere che, a parte una volta, non mi sono mai sentito davvero in serio pericolo. Quella volta, sprovvedutamente, sono passato con il semaforo 'ormai' rosso in viale Monte Ceneri e un camionista che partiva da via Mac Mahon mi ha graziato. Sì, poi c'è quel giorno che sono caduto perché una ruota si è incastrata nei binari del tram in piazza Cinque Giornate. E quello che un'automobilsta ha svoltato senza mettere la freccia sulla circonvalla e mi ha quasi fatto volare. Ma in nessuno di questi due casi mi sono sentito come all'incrocio tra Monte Ceneri e Mac Mahon, 'graziato', 'miracolato' o come vogliate chiamarlo.

Nella mia esperienza di ciclista urbano milanese, con il passare degli anni, sono cambiati alcuni dettagli non da poco. Alcuni esterni, positivi e negativi, altri personalissimi e perlopiù costruttivi. C'è da 'registrare' come buono l'effettivo aumento delle ciclovie riservate o delle zone 30. Un po' meno buono - o per lo meno da perfezionare - l'introduzione sregolata della mobilità elettrica in sharing con il boom di monopattini e dei servizi di noleggio non sempre gestiti né usati al meglio. Ci sono poi i dettagli personali, quelli fondamentali davvero nella mia percezione della strada e nel mio modo di vivere in mezzo al traffico. Da una parte è senz'altro migliorato il mio impegno nel rispettare a pieno le regole del codice stradale. Questo perché è aumentata la mia consapevolezza dei rischi del traffico motorizzato di una città metropolitana come Milano. In una parola, ad essersi rafforzata in questi anni di bici, è stata la mia prudenza. Prudenza come ciclista e, di conseguenza, come automobilista. E questo è uno dei punti cardine della questione.

Ovviamente bisogna rafforzare tutte le misure di sicurezza necessarie perché il ciclista passi in mezzo alle auto e ai camion il minor tempo possibile. Quindi bene ogni centimetro in più di pista ciclabile o l'incremento di zone 30 o di aree ciclo pedonali. Bene anche il casco e le luci obbligatorie. Così come è un bene l'idea di limitare alle ore notturne gli ingressi dei mezzi pesanti dentro le vie cittadine, obbligando gli autotrasportatori a installare dispositivi e sensori che riducano l'angolo cieco. Ma l'unica vera svolta arriverà dall'educazione stradale che deve cominciare nelle scuole dell'infanzia e che non deve mai venire meno. Nemmeno con la fine delle scuole. Nemmeno dopo anni di patente o di esperienza alla guida di qualsiasi tipo di veicolo. Ancor di più se si conducono bestioni pesanti decine di tonnellate e se lo si fa per lavoro. Solo un serio e definitivo piano di educazione - pratico e teorico - potrà nel lungo periodo aumentare la consapevolezza del rischio per sé e per gli altri che si corre stando alla guida di un veicolo, qualsiasi esso sia: dal più leggero come la bici al più pesante come un tir.

La prudenza poi sarà una conseguenza di questa presa di coscienza. È però un atteggiamento che va seminato, nutrito, allenato e aggiornato. Non bastano perciò un pugno di giornate di lezione in un anno scolastico, come già alcune scuole più previdenti fanno insieme alla polizia locale. L'educazione stradale dovrebbe andare di pari passo con l'educazione civica perché ci dà gli strumenti per imparare a muoverci nel mondo con il dovuto rispetto delle regole, degli altri e di noi stessi. Ogni volta che una persona muore in strada perché qualcuno non ha rispettato una semplice norma, per una disattenzione o per un'imprudenza dovremmo chiederci quanto poco, come società, abbiamo investito perché questo non avvenisse. Perché il camionista, l'automobilista, il ciclista o il pedone di turno avesse salva la vita. La sua o la nostra.

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