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Alessandro Rovellini

Direttore responsabile

Stazione Centrale

Il covid sta cambiando Milano sotto ai nostri occhi

Molte serrande non si sono rialzate al rientro di gennaio. E non è solo per colpa delle quarantene. Alcune abitudini e prassi, probabilmente, sono cambiate per sempre

Sul bancone c’è ancora un alberello triste. Gli addobbi luccicanti, le sedie ammassate, il pavimento da pulire. Natale è passato da un pezzo ma Antares non ha mai più riaperto. Il dehors è diventato rifugio per senzatetto. L'immondizia si è accumulata davanti all'entrata. E' uno dei principali self-service di tantissimi uffici che popolano via Vittor Pisani. Ora è un’altra vetrina spenta. Che non è chiaro quando (e soprattutto se) riaprirà.

Quello di Antares non è un caso isolato. A pochi metri di distanza un ristorante attende clienti per pranzo; i tavoli sono tutti vuoti, i camerieri immobili a fissare la stada. C’è una Milano che tira dritto e un’altra che, forse, è costretta a guardare tutti i giorni in faccia alla realtà. Perchè se da un lato si finiscono progetti partoriti pre pandemia, dall’altro lato il covid ha cambiato tante abitudini definitivamente. C’è un elenco quasi sterminato di multinazionali con sede in città che hanno inserito il telelavoro nelle agende settimanali di dipendenti e collaboratori. Non “fino alla fine dell’emergenza”: per sempre. Significa meno persone che vivono la città mordi e fuggi, meno indotto per bar, ristorazione, hotel. Si sgretola una rete fitta di pause pranzo, caffè e aperitivi dopo aver timbrato il cartellino. I puntini sono uniti dal silenzio elettrico delle bici dei rider: le app per le consegne di cibo, loro sì a prosperare. Un corto circuito al ribasso che ridisegna le necessità urbane.

Poco lontano dalla Stazione Centrale, tra serrande abbassate e bar popolati solo da ricordi, il grattacielo Scheggia di Coima svetta tra Gae Aulenti e Gioia. Non si sa quando verrà inaugurato ufficialmente. Rischia di rimanere un’immensa cattedrale vacante, o almeno occupata solo in parte, avveniristica e green quanto si vuole, ma superata dal tempo. Esattamente come gli altri palazzi dello skyline. Lo scrivevamo in tempi non sospetti: la città di oggi non sarà quella disegnata 5 anni fa. Il ragionamento travalica il lockdown di fatto di queste settimane. Migliaia di contagiati, migliaia di persone in quarantena. Milano è vuota, ma per buona parte lo rimarrà in un orizzonte di medio periodo. Starbucks che rivede le strategie, chiude due punti vendita di dimensioni importanti, è la punta dell'iceberg. Il consumo si è fatto più volatile, rapido, da take away. I nuovi store della Sirena saranno "kiosk", piccoli e più agili. In un paradosso imprevisto e imprevedibile, a guadagnarci sono tutti quei negozietti di prossimità che presidiano quartieri e comuni dell'hinterland. Come se i grandi agglomerati-dormitorio fossero diventati, all'improvviso, i cuori pulsanti del vivere quotidiano, che si allontana dal centro cittadino.

Le strutture previste per le Olimpiadi invernali 2026 Milano-Cortina hanno ragione d'essere? Pechino ha chiuso a tutti i prossimi Giochi. Non serviranno tribune o platee d’ampio respiro: le gare saranno aperte solo ai locali. Per l’estero sarà tutto blindato. Consumare metrature per spettatori che non ci saranno, oggi, è un azzardo. Nessuno, ovviamente, può predire il futuro. Tra 4 anni potremmo esserci ancora dentro fino al collo. Oppure esserne fuori con cicatrici profonde. Il covid ci ha insegnato quanto labile, impreciso e sfuocato possa essere ragionare troppo in là. Ma la Milano di oggi è un avvertimento, un monito. Soprattutto in fase di definizione del Pnrr. Finita la crisi sanitaria potremmo accorgerci di volere una città diversa, prossimale, dove il passaggio è più rapido e senza radici. Non escludiamolo a priori. 

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