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Massimiliano Tonelli

Direttore Editoriale CiboToday

Duomo

ll pavè è una grande cattiveria che Milano fa a sé stessa

Come può una città che punta a sostenibilità ed ecologia mantenere un fondo stradale che di fatto impedisce di usare le biciclette su tantissimi percorsi importanti?

Pedalavo su Corso Italia e mi si è fratturato il cestino della bici. Ho contato: è la settima volta negli ultimi 12 mesi. La mia ciclofficina a questo giro ha realizzato una saldatura artigianale che fa invidia alle sculture di qualche artista della minimal art. Reggerà? Ho scoperto comunque perché così tante bici a Milano rinunciano al cestino. Andavo per Via Torino con un po’ di spesa nel portapacchi, arrivato a casa le uova erano frantumate (tutte fuorché una, ammetto), una bottiglia rotta e le vibrazioni erano riuscite perfino ad aprire un barattolo di conserva. Esploso. Lungo Via Goriza una volta mi è scoppiata una gomma e un’altra volta mi è scoppiato un gran mal di schiena perché mi ero schiacciato una vertebra. Corso di Porta Ticinese mi è costato due (due!) laptop, dopo le sollecitazioni addio funzionamento della tastiera: erano entrambe le volte in garanzia, per fortuna. Una volta lungo corso Genova vengo implorato dalla collega che pedalava con me: “Fermiamoci un attimo che dai colpi che ho preso mi fa male la faccia”. In viale Premuda per almeno tre volte m’è saltata la catena, sono arrivato all’appuntamento di lavoro con le mani piene di grasso ma per fortuna in questa città accogliente ogni volta hanno empatizzato per me senza farmi sentire troppo a disagio. Volete che continui con gli aneddoti? Potrei eh…

Al di là di ogni considerazione ideologica sulla sua necessità o sulla necessità di toglierlo di mezzo, il pavè milanese che lastrica una piccola ma decisiva porzione delle nostre strade è questa cosa qui: uno dei più grandi deterrenti ad una mobilità urbana green basata sulla bicicletta. Io le ho provate tutte: una bici normale, poi un’altra dotata di ammortizzatori, poi ho sperimentato quelle messe a disposizione dai vari servizi di bike-sharing. Nulla. L’incompatibilità profonda tra i masselli di porfido e l’azione stessa del pedalare è acclarata. Il mio osteopata ci mette il carico: “devi smettere, passa ad uno scooter o alla macchina”.

Impossibile usare la bici

Io mi ritengo ancora un baldo quarantenne e provo a stringere i denti e a non rinunciare a spostarmi in un modo che ritengo etico, smart, sostenibile, idoneo ad una città mediterranea, piatta e compatta come Milano. Ma tutti gli altri? Le persone più anziane di me? Le persone che devono trasportare qualcosa di fragile? Le persone che hanno dei problemi alle ossa o che semplicemente non vogliono provocarsene? I genitori coi loro bambini nel seggiolino? Tutte queste persone, e altre ancora, sono ingiustamente e insensatamente escluse dalla mobilità ciclabile cittadina. È uno scenario che non si può accettare nel 2022 mentre si parla di politiche verdi, ecologia, risparmi energetici: stiamo spostando persone dalla bici all’auto o alla moto pur di tutelare dei sassi?

So bene che Milano non è l’unica città occidentale a lastricare le proprie strade storiche. Figuratevi, sono di Roma. Ma fidatevi di uno che gira praticamente solo in bici sia a Milano che nella Capitale e poi anche in tutte le altre città dove è solito recarsi per lavoro: non c’è in Europa nulla di paragonabile all’effetto restituito da questi ciottoloni malconci collocati come fossimo nel greto di un torrente. E non la si faccia semplice con posizioni tipo "basterebbe un po' di manutenzione". No, non basta: anche dove il pavè è stato appena ricollocato i disagi sono presenti: è proprio quel genere di materiale che non è più adatto alle esigenze contemporanee e punto.

Tradizione contro sostenibilità

Mi domando quante migliaia di cittadini milanesi abbiano dovuto rinunciare alla bici dopo una brutta esperienza sul pavè. Mi domando quanti siano quelli che usano il pavè come pretesto - anche verso sé stessi - per non lasciare i mezzi a motore e passare finalmente ai pedali. Mi domando in nome di una discutibile difesa della tradizione quale impatto ambientale si generi, quante polveri sottili in più, quanto traffico in più, quanta incidentalità in più e relativi costi sociali. Non sono certo un fan dell’asfalto, anzi, ma i pasdaran di pietre&porfidi mi hanno sempre lasciato dubbioso: a Roma è pieno di gente convinta che i sanpietrini risalgano direttamente dall’era imperiale! Si tratta in realtà di soluzioni che hanno semmai poco più di cent’anni: da affrontare con ragionevolezza, non con ideologia.

Nonostante tutto i ciclisti urbani irriducibili poi per fortuna ci sono e hanno le loro strategie per evitare l’autentica tortura, spesso suggerite in città dai negozi di bici e dalle officine. Un esempio? L’asse di Via della Commenda e di Via della Guastalla, in grado di portarti con un fondo stradale accettabile verso il Duomo evitando l’inquietante Corso di Porta Romana dove un giorno i dislivelli dei pietroni mi fecero volare via irrimediabilmente gli occhiali e dove in alcuni tratti hai la netta sensazione che mentre pedali qualcuno ti stia picchiando con un bastone. Altri ciclisti, poi, con le braccia tremolanti dopo interminabili minuti di vibrazioni, ricorrono ai marciapiedi dove mettono a repentaglio pedoni, clienti di negozi, persone che escono dai condomini. Tutto questo gran caos a che pro? Per immolarsi sull’altare di una tipologia di roccia?

Lasciare il pavè solo nelle isole pedonali

Qualcuno giura che il pavè è importante perché, rispetto all’asfalto, genera in maniera inferiore isole di calore d’estate. È una superficie che si arroventa di meno sotto al solleone. Probabilmente è vero, ma il gioco vale la candela? Che razza di scelta ecologica è quella di avere qualche grado in meno su poche strade ma per contro avere decine di migliaia di auto e moto inquinanti in più?

Certo, bisogna ammettere che nelle strade storiche il pavè è bello. Molto più bello dell’asfalto. E allora collochiamolo lì e solo lì. Solo nelle strade monumentali, a patto che siano pedonali. Così lo si installa correttamente e non si consente a auto, furgoni o mezzi pesanti di deformarne il mosaico rendendolo l’emblema dell’anti-ciclabilità. Oppure collochiamolo sui marciapiede visto che - come in un bizzarro mondo all'incontrario - a Milano abbiamo tante strade dove la carreggiata è in pietra e il marciapiede è in asfalto. Quanto al resto delle strade, però, lo si tolga quanto prima. Rappresenta davvero una contraddizione in termini e una totale incoerenza per una città che dice di voler puntare ad obbiettivi internazionali di sviluppo sostenibile.

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