Uno dei più geniali ristoratori di Milano è cinese (e festeggia 20 anni di carriera)
Un'intervista per celebrare i primi 20 anni di carriera di Claudio Liu, poco più che quarantenne ma già maestro assoluto dell'hospitality coi suoi ristoranti Iyo, Aalto e Omakase. La storia, la famiglia, il passato, i progetti per il futuro
Uno dei nomi indiscutibili, autorevoli e rispettati dell’alta cucina a Milano è cinese e si chiama Claudio Liu. Un ristoratore mitico, un maestro dell'hospitality. Che però ha poco più di quarant’anni. E quest'anno festeggia i suoi primi 20 anni di carriera. Abbiamo approfittato di questa ricorrenza per una lunga intervista con lui.
Nato in Cina nel 1982, da giovanissimo si trasferisce con i suoi in Italia e si stabilisce in Emilia, a Correggio dove il padre lavora nel settore della maglieria. Nel 2003 il padre decide di spostarsi a Milano per puntare sulla ristorazione con la previsione - rivelatasi centrata - che anche i suoi tre figli (Claudio appunto, ma anche Giulia e Marco) potessero prendere la loro strada nel settore. Claudio non è proprio entusiasa di mollare la campagna e stabilirsi a Milano, ma il padre non sente ragioni e tutti assieme aprono il Ristorante Acquario in Via Raffaello Sanzio, in zona Fiera. Qualche anno, i primi successi di pubblico e la voglia di mettersi in proprio: a soli 24 anni Claudio apre Iyo che poi rappresenterà uno spartiacque della ristorazione orientale in Italia, basti pensare che è l'unico ristorante giapponese ad avere una stella Michelin. Da quel momento è un'escalation di svolte, rischi, investimenti e intuizioni che proseguiranno anche nel 2024. E che ci siamo fatti raccontare in questa lunga intervista.
Claudio, lo scorso anno hai festeggiato i 15 anni del tuo ristorante Iyo. Ma in questo 2023 c'è un'altra ricorrenza: i tuoi 20 anni di carriera nella ristorazione...
Eh già. Ho iniziato il mio percorso assieme ai miei genitori, nel 2003.
Il tuo percorso nella ristorazione inizia nel 2003 e inizia a Milano anche se tu non sei di Milano.
No. Io sono nato in Cina ma sono cresciuto a Rio Saliceto, vicino Correggio e Carpi.
Come mai un'infanzia in Emilia per un ragazzo cinese?
Io sono nato nel 1982 e sono il figlio più grande. Mio padre a metà degli Anni Ottanta emigrò dalla Cina a Parigi per lavorare proprio nella ristorazione: da lavapiatti diventò chef. Poi decise di spostarsi sul settore delle confezioni e della maglieria. Nel frattempo ottenne tutte le carte necessarie per permettere anche a noi figli di poterci ricongiungere e con la sanatoria venne in Italia. Si decise per aprire il laboratorio a Correggio, vicino a Carpi che era un grande distretto della maglieria.
Insomma adesso hai 41 anni, ne hai vissuti 20 a Milano, i primi in Cina e tutta l'adolescenza e fanciullezza in Emilia. Cosa ti senti principalmente?
Devo dire che principalmente mi sento emiliano. Per quanto sia molto legato a Milano, i ricordi più belli e spensierati della mia vita sono legati all'Emilia.
Però ad un certo punto l'Emilia l'avete dovuta lasciare...
Mio padre voleva lasciare il business delle confezioni e della maglieria e voleva tornare nel settore della ristorazione. L'idea era di aprire un ristorante cinese a Milano e nel 2003 si prese questa decisione. Con mio grande disappunto in realtà...
Non volevi lasciare la campagna?
Proprio no. Avevo la mia compagnia di amicizie, la mia fidanzata, le mie abitudini, i campi di pannocchie, gli allevamenti. Milano mi sembrava fuori scala. Ma mio padre fu particolarmente risoluto.
E quindi ristorante cinese a Milano e inizia la tua carriera nella ristorazione aiutando papà...
Non proprio. La mia carriera inizia sì, ma non in un ristorante cinese. Dovemmo cambiare rapidamente programmi perché iniziò a diffondersi la paura per la SARS in quei giorni. Un autentico disastro per la ristorazione cinese, un impatto incredibile. Puntammo su un ristorante italiano, tradizionale.
E come andò?
Andò bene abbastanza presto. Facevamo simpatia io e mio sorella, eravamo due cinesi-emiliani giovani e simpatici, il cibo era normale (risotto giallo, pasta alle vongole e la pizza), avevamo un cuoco italiano in gamba e tutto accadde nonostante la grande concorrenza in quella zona. Il Ristorante Acquario è stata una palestra incredibile per me e mia sorella: ci siamo fatti veramente le ossa e dopo un po' il ristorante è diventato quello più frequentato della zona.
Che zona era?
In zona Fiera (all'epoca c'era ancora la fiera), negli spazi dove oggi c'è il Ba Asian Mood, il ristorante che mio fratello Marco ha poi aperto lì nel 2011.
E i tuoi?
Lavoravano al ristorante anche loro. Mia mamma dietro al bancone del bar, mio papà a fare il lavapiatti.
Il lavapiatti?
Sì certo. C'era anche all'epoca difficoltà nel trovare personale e così c'era uno stipendio in meno da pagare. Il progetto era costato più del previsto...
Tre anni e poi decidi di metterti in proprio.
Lavorare sotto l'ala dei genitori è bello ma allo stesso tempo le visioni sono diverse. Il ristorante andava molto bene e io ho pensato di mettermi in proprio. E poi in quel periodo credevo tantissimo nella cucina giapponese, essendo anche un grande amante della cultura di quel paese. Ne parlai anche con mio padre che all'inizio era molto scettico ma poi la cosa si è sbloccata.
Com'era all'epoca il panorama dell'offerta gastronomica giapponese in città?
Non era ancora partito il settore. C'erano dei ristoranti ma forse una ventina in tutto. Erano gli inizi ma avevo capito che si poteva crescere.
Insomma in attesa del 2007, anno di apertura di Iyo, il 2006 fu un anno decisivo per te. Eri a Milano da soli 3 anni, non avevi neppure 25 anni d'età eppure tutto stava evolvendo.
Io dico che nel 2006 ho fatto le cose che le persone fanno in un'intera vita. Ho preso il nuovo spazio dove è nato Iyo, ho smesso di lavorare coi miei genitori, mi sono sposato, ho fatto una figlia e ho comprato casa.
Difficile?
Molto difficile e molto bello. E poi nel 2007, a febbraio, era pronto Iyo.
E questo nome?
Deriva dalla parola Ukiyo, che significa mondo fluttuante.
Nel 2007 era comunque un posto molto diverso dal raffinatissimo ristorante di oggi.
Era profondamente diverso da oggi. L'80% di ciò che vendevamo era sushi e tempura e lo scontrino medio senza vino era attorno ai 30 euro.
L'evoluzione poi è stata repentina o graduale?
In realtà molto graduale all'inizio. Mio padre ci ha sempre insegnato a mettere il cliente al centro. E allora abbiamo guardato quello che volevano i clienti più che le nostre idee. Piano piano osservando i clienti e le loro inclinazioni comprendevamo dove potevamo andare, dove potevamo osare e rischiare. Stare sempre in sala significa avere la possibilità di recepire tutti i feedback. Si provavano piatti nuovi, si facevano assaggiare, si capiva cosa poteva andare e cosa no. E questo è stato anche un modo di consolidare il rapporto con gli ospiti: in molti si sono sentiti coinvolti nella crescita del ristorante.
Un cambiamento radicale c'è stato però.
Sì, è avvenuto nel 2011 quando abbiamo avuto la possibilità di allargarci negli spazi attigui: con più coperti il budget a nostra disposizione è immediatamente salito, abbiamo potuto trovare personale che ci facesse fare un salto di qualità, e abbiamo acquistato attrezzature differenti. Anche l'arredamento è diventato più ambizioso. Certo non si pensava che nel 2015 sarebbe arrivata la stella Michelin ma insomma...
Quale è stata, dopo questa fase di cambiamento, la strategia per tenere sempre connessi i clienti?
Abbiamo offerto loro un locale tutto nuovo, ambiziosissimo, moderno, ma non abbiamo toccato per nulla i prezzi. E in questo modo dal primissimo giorno del nuovo corso abbiamo riempito e così nei giorni e nei mesi a seguire.
La partita era decisamente cambiata.
Ma sì, il fatturato è rapidamente più che raddoppiato. Così potevamo investire di più e abbiamo stanziato una cifra significativa per ricerca e formazione. Quella è stata la svolta. Dopo qualche anno, nel 2013, un'altra svolta è stata individuare un particolare linguaggio gastronomico a cavallo tra l'Italia e il Giappone. Non era più un classico ristorante giapponese di alto livello, era un concetto di fusione gastronomica tra due culture che oggi è abbastanza normale ma dieci anni fa non lo era. Nel 2014 ancora altri investimenti: rifacciamo completamente le cucine che nel restyling del 2011 erano rimaste praticamente intatte.
A quel punto tuo papà che all'inizio era scettico ti avrà finalmente detto "bravo"?
Non l'ha mai detto e penso non lo dirà mai. Papà è il tipo che se tornavo a casa raccontando di aver preso 9 e mezzo mi diceva che però avrei potuto prendere dieci.
Mamma e papà cosa fanno adesso?
Sono a riposo, in pensione. Anzi no, lavorano eccome: lavorano come nonni perché danno una mano con tutti i nipotini che sono sei: i miei tre figli e i figli dei miei fratelli Giulia e Marco.
Beh almeno una delle tue figlie non ha più tanto bisogno dei nonni...
In effetti Noemi inizia ad essere grande. Va per i 17. Qualche giorno fa ha iniziato a fare uno stage come runner al nostro ristorante Aalto. Era tutta emozionata. Nel frattempo porta avanti il liceo linguistico.
Ti piacerebbe che i tuoi figli ti seguissero?
Prima di lavorare nell'azienda di famiglia vorrei che facessero tutti delle grosse esperienze fuori. Dopodiché non voglio obbligarli. Loro sanno che l'azienda c'è se vogliono.
Invece tua moglie Ilaria Hu?
Sempre lavorato con me. Lei è la colonna portante che sta dietro le quinte.
I tuoi fratelli Giulia e Marco sono anche loro ristoratori con insegne di grande successo in città. Giulia ha il Gong e Marco il Ba Asian Mood. A livello societario però siete separati?
In realtà abbiamo una gestione federale. Siamo indipendenti ma su alcune cose andiamo insieme, ad esempio su alcuni fornitori facciamo gruppo d'acquisto cosa che ci permette di avere maggiore qualità e trattare prezzi migliori.
In tutti questi anni sei mai tornato nella regione cinese dove sei nato?
Nello Zhejiang ci torno ogni due tre anni. Si tratta anche di un'attività che mi serve (prima del Covid era l'impegno di ogni agosto) per scoprire prodotti nuovi, mercati, ricette, materie prime. Certamente in Cina ma anche in Corea e in Giappone.
La tua idea più straordinaria e innovativa in questi anni.
Quando nel 2013 abbiamo messo sullo stesso livello un cuoco italiano e un cuoco giapponese in contemporanea in cucina. Equilibrio difficile ma una bella sfida.
Hai osservato la città di Milano per 20 anni. Come l'hai vista cambiare?
Nel 2003 era piatta, era un pochino vecchia. Il vero cambiamento è stato con Expo: totalmente cambiata la mentalità, la voglia di fare. Mi ricordo gli anni 2018 e 2019 che sono stati davvero incredibili. Poi c'è stato il grande stop e ora una significativa ripresa.
Parliamo del grande stop. Come l'hai affrontato.
C'è stato senz'altro un momento in cui la luce in fondo al tunnel non si vedeva. Ma è durato poco. Per fortuna noi lavoriamo con l'ìmpostazione di dare sempre una solidità al nostro business affinché l'albero non vada giù alla prima folata di vento. Per cui avevamo un po' le spalle coperte. E poi è esploso il nostro servizio di delivery Aji che ha beneficiato dal periodo di super lavoro degli anni 2018/2019. Siamo arrivati così molto preparati a quel momento e il fatturato sviluppato dal delivery ci ha sostenuto fattivamente.
Aji è un delivery particolare. Non vi appoggiate alle piattaforme, avete i vostri mezzi, i vostri fattorini formati e esperti capaci anche di spiegare i piatti ai clienti...
Si tratta di una start up molto particolare sì. Tra qualche mese apriremo il secondo punto in Porta Romana in modo da coprire anche quella parte della città. Aji ha dei risultati importanti: se il massimo dello scontrino medio nel mondo del delivery è sui 40 euro, Aji si posiziona oltre il doppio per ogni ordine.
Insomma Iyo ha un fatturato invidiabile, Aji fa numeri doppi rispetto al mercato, Aalto è sempre pieno, Omakase ha le liste d'attesa per i per i prossimi tre mesi. Avrai avuto mille richieste per cedere tutto il tuo gruppo a uno dei tanti fondi che investono nella ristorazione.
Facciamo anche duemila. Ma per ora non voglio evolvere in quel senso. Lo stesso riguarda per la crescita in altre città: le proposte da Londra, New York o Emirati sono tantissime, ma voglio prima strutturarmi di più. Non è da me fare dei tentativi al buio. Per il momento ci vogliamo organizzare per uscire dalla regione.
Intanto però sei uscito dal ristorante originario di Via Piero della Francesca. Non solo col delivery Aji ma anche con il progetto Aalto, proprio in Piazza Alvar Aalto sotto i grattacieli di Porta Nuova.
L'ho aperto nel 2019 quando ho realizzato che la cucina era cucina, senza confini, senza definizioni. Si tratta un po' della conferma della mia contraddizione esistenziale di cinese, cresciuto in Emilia con tortellini e lasagne, che propone cucina giapponese. Tutti possono fare tutto al di là dei paletti e Aalto è il ristorante senza definizioni in questo senso. Non lo puoi definire un ristorante giapponese, asiatico, italiano o altro: è cucina libera d'autore e di ricerca. E poi contraddizioni su contraddizioni, perché dentro Aalto c'è un ristorante nel ristorante: Omakase, la nostra insegna di cucina giapponese ultratradizionale (qui per trovare la mappa degli Omakase di Milano).
Intanto il 2024 rappresenterà una ulteriore evoluzione per Iyo. Non si smette mai di investire...
La ristorazione sta cambiando rapidamente e bisogna starle dietro. I clienti vogliono servizi sempre più integrati all'interno del ristorante. Un ristorante insomma non può essere solo un ristorante. E così Iyo avrà la sua zona dedicata ai cocktail e alla miscelazione. E avrà delle sale che potranno essere riservate per eventi aziendali e privati. Servizi che ci chiedono sempre di più. E poi rifacciamo completamente le cucine e al piano meno uno un laboratorio di ricerca indipendente.
Il tuo punto di vista sullo scenario della ristorazione in generale. In particolare con le novità degli ultimi anni che vedono i ristoratori in difficoltà nel reperimento di personale.
Mai avuto così tanti problemi nel trovare professionisti. Ma ormai è così. Non dobbiamo aspettare che queste cose cambino. Questo nuovo paradigma è qui per restare, siamo noi imprenditori a doverci adeguare per essere attrattivi. Non lavorando solo sulla moneta che diamo ai nostri collaboratori perché quello è uno dei tanti fattori, ma facendo leva anche su una nuova organizzazione, una definizione dei percorsi di crescita, sul welfare, sulla formazione.