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Cronaca

Immigrazione e lavoro nero: in Lombardia sempre più morti "invisibili"

In Lombardia nel 2008 sono stati 15mila gli incidenti sul lavoro, di questi 172 mortali. Di queste "morti invisibili" abbiamo parlato con De Alessandri che per l'Expo chiede trasparenza degli appalti, sicurezza, qualità del lavoro, per evitare collusioni con organizzazioni criminali

Nel 2008, in Lombardia, ci sono stati circa 15mila infortuni sul lavoro, di cui 172 mortali: per quanto riguarda nello specifico la Categoria Edili, ci sono stati 6 morti a Milano e 16 in Lombardia, mentre ad oggi, i morti del 2009, sono 6 a Milano e 22 in Lombardia. L’ultimo operaio edile morto, questo mese, a Paderno Dugnano.

Abbiamo parlato di questo triste fenomeno con Franco De Alessandri, segretario generale dei Lavoratori Edili Fillea-Cgil di Milano.

D. I dati sono spaventosi, un “bollettino di guerra” che impressiona, soprattutto se calato in un contesto regionale e cittadino che si reputa “moderno”. Come può accadere tutto questo ancora oggi?

R. Facendo un quadro generale sugli incidenti e le morti sul lavoro in questi ultimi anni, parto da una considerazione che è una certezza: è un vero e proprio bollettino di guerra. Infatti abbiamo ogni anno, per quanto riguarda quelli accertati, quasi 2000 morti sul lavoro in tutta Italia: ogni giorno muoiono in media 4 persone che sono al lavoro in Italia e di questi, uno è un lavoratore edile. Neanche in guerra accade. Perché succede ciò in un Paese che dovrebbe essere moderno, in una Regione che è dipinta come il motore dell’Europa ed è proiettata verso il futuro, in una città come Milano che è il cuore economico del paese? Perché c’è un ragionamento molto semplice: la prevenzione sul lavoro è un fatto che richiede attenzione specifica, costi e un’azione mirata ad evitare vittime: l’azienda deve dare dei mezzi di protezione al lavoratore, come il casco, fondamentale nei cantieri, in cui possono cadere oggetti dall’alto, o come le funi necessarie per imbragare i carpentieri che vanno sui tetti. Poi ci vuole la formazione e l’informazione, perché il lavoratore deve sapere come si deve muovere in un determinato luogo, cosa deve fare e cosa non deve fare. Faccio l’esempio di quegli operai edili tutti di nazionalità e lingua diversa, che si trovano a dover lavorare fianco a fianco nello stesso cantiere a 15 metri di altezza: la comunicazione è fondamentale, ma invece si comunica a gesti…altro che ‘900! Le imprese infatti, dato che nel settore edilizio la competizione non è sulla qualità ma è sul pagare meno, preferiscono tagliare i costi della formazione e della sicurezza . Non può accadere in una città come Milano, ma in generale manca la cultura della sicurezza. Noi diciamo, come sindacato, che sarebbe utile cominciare già dalle scuole a impartire una cultura sulla sicurezza, in particolare per quei ragazzi che frequentano le scuole di orientamento professionale.

D. Ma secondo Lei, qui a Milano, l’attenzione all’applicazione delle leggi per la sicurezza, è maggiore?

R. No. Il meccanismo di solito vede all’opera general contractor, committente e appaltatore. Se rimaniamo in questo schema, delle imprese che lavorano direttamente, senza subappalti, siamo sicuri che le leggi vengono rispettate, perché si ha a che fare con imprese con nomi importanti. Il problema, anche a Milano, comincia nella catena infinita del subappalto, dove nessuno controlla più niente. Abbiamo ad esempio tante imprese che vengono dal meridione e competono con quelle milanesi per gli appalti, vincendo, perché fanno ribassi del 30-50%; ma come fanno a starci dentro? Certo, ci sono quelle che hanno rapporti con la criminalità, ma noi con una serie di norme e contratti cerchiamo di tenerle fuori sin dalle gare di appalto, ma quelle regolari, che vincono gli appalti, riducono i costi dando meno soldi agli operai ed evadendo tutte le norme di sicurezza

D. Secondo lei capita anche a Milano che gli infortuni e le morti sul lavoro vengano considerate dall’opinione pubblica come “di seconda categoria”?


R. Sì succede. E’ capitato negli ultimi anni che vengano considerati di “seconda categoria”, perché sono dei morti “invisibili”, che non rappresentano un tema e una questione sociale. Sono dei morti che hanno la loro rilevanza nel momento in cui vanno in prima pagina per cronaca. In particolare, mediamente, da parte della stampa non vi è un interessamento di carattere giornalistico sul fenomeno, ma c’è solo la voglia di sbattere il fatto in prima pagina. Noi invece, come sindacato, abbiamo fatto 4 anni fa una manifestazione con 2000 muratori, ci occupiamo continuamente di lavoro tra giustizia sociale e legalità, abbiamo fatto una campagna contro la criminalità con Don Ciotti e anche con Ingroia, per dire che è assurdo e inconcepibile che nel 2009 delle persone muoiano in questo modo. Ci sono stati inoltre tanti episodi di incidenti sul lavoro fatti passare dalle imprese come incidenti di altra natura oppure non denunciati all’Inail e dichiarati come malattia. Abbiamo avuto addirittura il caso di un operaio marocchino caduto dal tetto e buttato in strada, perché creduto morto, simulando una finta rissa tra stranieri: adesso noi siamo in causa contro quell’impresa al tribunale di Lecco, perchè il ragazzo era ancora vivo. Quindi c’è anche il fatto che nel settore dell’edilizia, in cui c’è molto lavoro “in nero” e dove ci sono tanti clandestini, molte volte ci sono fenomeni che vengono mascherati; io penso anche che siano avvenuti incidenti mortali di cui non sappiamo niente.

D. Dunque è facile l’associazione “incidenti sul lavoro”-“ lavoro nero”- “immigrazione”?

R. Direi che è un trinomio strettissimo. Ci possiamo aggiungere un quarto punto che è l’attenzione che hanno le organizzazioni criminali, con il “caporalato”, organizzato da fuori: abbiamo visto ragazzi che arrivavano in Piazzale Lotto alle 5 e mezza del mattino, pagati 3 euro all’ora e spediti in tutte le zone di Milano e Provincia. Oltre a essere pagati così poco, dovevano dare la mazzetta al caporale, ed era tutto un giro organizzato e diretto da qualcuno dall’esterno. Uno l’abbiamo fatto arrestare alla fiera di Milano, colto in flagrante.

D. Secondo lei l’Expo può essere un’occasione per arrivare ad una maggiore cultura sociale sulla sicurezza sul lavoro?

R. L’Expo è un bell’enigma, dipende da quale sarà l’approccio: se è quello che chiediamo, cercando di fare una contrattazione in anticipo con la Società Expo, con una serie di accordi per la trasparenza degli appalti, la sicurezza, la qualità del lavoro, per evitare collusioni con organizzazioni criminali, per un risparmio energetico e una garanzia dell’equilibrio ambientale della città, allora può essere un’occasione per recuperare la cultura della sicurezza sul lavoro. Una cultura che 30 anni fa era diversa, quando c’erano ancora imprese serie, quando i lavoratori dicevano il “mio” datore di lavoro e questo diceva i “miei” operai: si costruiva un palazzo e quando si arrivava al tetto, si metteva la bandiera italiana e la sera si cenava tutti insieme. Per il datore di lavoro il lavoratore era una risorsa fondamentale, quindi stava attento che non cadesse giù dal ponteggio o si facesse male: c’era un rapporto che oggi non c’è più nelle imprese strutturate.
Concludendo, se l’Expo sarà una cosa in cui bisognerà fare in fretta, lavorare e guadagnare il più possibile, sarà un disastro, dato che si parla di 30000 posti di lavoro in prospettiva.

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