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Cronaca

Instagram, furgoni e Poste: così da Milano i documenti falsi vanno (anche) nelle mani dei terroristi

Sgominata banda specializzata nel falsificare i documenti: 7 in manette. A Milano il "procacciatore" più influente. Su 1000 documenti, almeno una ventina sono finiti nelle mani di "foreign fighters" tornati in Europa

Gli ordini sul web, dove i prodotti venivano pubblicizzati tranquillamente, quasi in maniera sfacciata. La prima parte del viaggio via terra, con una copertura legale che potesse evitare ogni problema. Quindi la consegna finale in anonimi pacchi postali, che giungevano sempre a destinazione. E sempre, o quasi, passando da Milano. Così, da almeno un paio di anni, il capoluogo meneghino era diventato il centro di un giro di documenti falsi arrivati praticamente in ogni angolo d'Europa. E finiti, spesso, in mani pericolose. 

Dietro quel giro, hanno accertato i poliziotti della Digos, coordinati dai pm Alberto Nobili, Paolo Pirotta ed Enrico Pavone, c'erano sette persone - un russo di etnia cecena e sei ucraini - adesso finite in manette con l'accusa di associazione per delinquere dedita al traffico di documenti falsi e contraffatti. 

Il lavoro degli specialisti dell'antiterrorismo, guidati da Guido D'Onofrio e Carmine Mele, è partito a novembre scorso, quando le autorità austriache hanno segnalato ai colleghi meneghini che nei cellulari di un 20enne - Musa, un procacciatore di clienti per i falsari - era stato trovato il numero di un uomo residente in Italia. Quell'uomo, poi finito in manette a novembre scorso, era Turko Arsimekov, un 35enne ceceno residente nel Varesotto specializzato nel contraffare i documenti, tanto da avere tre profili Instagram e un sito online, tutti in lingua cecena, per vendere i propri prodotti. 

Dal web ai furgoni

I loro nomi erano poi stati collegati a quello di Fejzulaj, l'attentatore che il 2 novembre 2020 aveva seminato il panico a Vienna uccidendo quattro persone nel nome dello Stato Islamico, tanto che Arsimekov e Musa erano poi stati a loro volta accusati di terrorismo. 

Percorrendo la corrente al contrario, anche grazie a cellulari e pc sequestrati a casa del ceceno al momento del primo arresto, investigatori e inquirenti sono riusciti a ricostruire tutta la rete dei falsari. 

Il giro - si legge nelle carte dell'inchiesta - partiva proprio da Arsimekov che "procacciava clienti, riceveva gli ordini ed i pagamenti, indicava i prezzi e, quindi, trasmetteva richiesta, denaro ricevuto dal cliente e fotografie a Zaiats". Il nome è quello di Vitalii Zaiats, un 44enne ucraino residente in Patria che si occupava della produzione materiale dei documenti e che viene considerato dai poliziotti l'altro capo della banda. 

L'uomo, titolare di una ditta di trasporti, "trasmetteva i falsi documenti in Italia tramite propri corrieri" - tre sono finiti in manette - "facendoli poi consegnare" a una coppia di insospettabili: altri due ucraini, mamma 65enne e figlio 43enne, residenti  Milano, che "a loro volta li riconsegnavano all'Arsimekov". 

L'ultimo passo, dopo una sorta di controllo di sicurezza, spettava di nuovo al ceceno, che imbustava i documenti e, per sua stessa ammissione, li spediva dagli uffici postali di Varese e Milano, molto spesso uno in zona Garibaldi. 

I soldi con Money transfer

Con questo metodo, semplice ma evidentemente pratico, la banda sarebbe riuscita a produrre e vendere almeno un migliaio di documenti, i cui prezzi variavano dagli 800 ai 2mila euro, con i passaporti che chiaramente erano quelli più costosi. 

I pagamenti, con lo scopo di essere quanto meno tracciabili, avvenivano quasi sempre attraverso Money transfer e, stando a quanto accertato dalla guardia di finanza, il giro di affari sarebbe stato di almeno 250mila euro con movimenti tra almeno 60 diversi Paesi, che dà il quadro preciso di quanto fosse ramificata l'organizzazione. 

I documenti come "armi"

E con clienti sparsi in tutto il mondo, il rischio che i documenti falsi finiscano in mani pericolose - come quelle dell'attentatore di Vienna - è più che elevato. "Quelli che abbiamo arrestato non sono terroristi - ha sottolineato il pm Alberto Nobili -, ma sono persone che hanno messo falsi documenti d'identità anche in mano ai terroristi. E mettere in mano a un terrorista un falso documento equivale ad armarlo”. 

Anche perché, con la disgregazione dello Stato islamico, molti foreign fighters stanno cercando di tornare in Europa e un passaporto falso è il loro unico lasciapassare possibile. Tra i mille documenti prodotti dalla banda, per stessa ammissione di investigatori e inquirenti, almeno una ventina sono finiti - e sono ancora - in mano proprio a dei foreign fighters. Che adesso sono tornati in Europa. 
 

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