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Cronaca

La Lucarelli condannata per diffamazione in primo grado: vittima Barbara D'Urso

La decisione del tribunale di Milano. La blogger: "Ricorrerò in appello. Diritto di satira sempre"

Selvaggia Lucarelli, scrittrice e web star, è "colpevole del reato di diffamazione aggravata ai danni di Barbara D'Urso", per un post pubblicato nel 2014 su alcuni social network (Twitter e Instagram) in cui l'editorialista de Il Fatto - commentando un'intervista resa dalla d'Urso a Daria Bignardi - aveva affermato: "L'applauso del pubblico delle Invasioni alla d'Urso ricordava più o meno quello alla bara di Priebke". Lo ha stabilito martedì il tribunale di Milano, sezione X penale, in composizione monocratica. Lo fa sapere in una nota il legale della D'Urso ripresa dall’Ansa.

"Il tweet, ultimo di una serie di commenti al vetriolo e sovente di pessimo gusto - afferma il legale della conduttrice di Canale 5 - aveva indotto Barbara d'Urso a sporgere una querela. Barbara d'Urso aveva evidenziato come il commento della Lucarelli fosse gratuitamente offensivo, basato su fatti falsi e manifestamente incontinente, travalicando i limiti della libera manifestazione del pensiero per ledere direttamente l'altrui reputazione". "Il tribunale ha condannato Selvaggia Lucarelli a 700 euro di multa, oltre al risarcimento del danno e alla rifusione delle spese legali sostenute dalla persona offesa. Il giudice - rileva ancora il legale di Barbara D'Urso - ha dunque colto la falsità del fatto posto alla base dell'affermazione offensiva (”l'applauso di cui trattasi era obiettivamente caloroso”) e la conseguente gratuità e strumentalità dell'attacco della Lucarelli".

"Leggo di condanne, risarcimenti, mancate scuse (?!), beneficenza. Per la cronaca, è il primo grado e non ho dovuto liquidare la somma, ricorrerò in appello. Ci aggiorneremo", ha scritto la Lucarelli su Twitter. Poi, postando la foto di una battuta di Spinoza sulla D'Urso, ha ribadito: "Sarò sempre ben lieta di difendere in tribunale e altrove il diritto di satira, di cui la D'Urso è bersaglio (e non solo mio, ovviamente) come tutti i personaggi noti. Anche a mie spese. Detto ciò, di battute così è piena la storia, è pieno il web. E appello sarà".

Perché si parla di diffamazione aggravata Facebook è un mezzo di diffusione ma non è stampa, sicché alla diffamazione ivi commessa è applicabile l'aggravante della diffusione attraverso un qualsiasi mezzo di pubblicità (articolo 595 comma 3 Codice penale), ma non quella dell’attribuzione di un fatto determinato con il mezzo della stampa (articolo 13 legge 47 del 1948). Questo è quanto stabilito dalla quinta sezione penale della Cassazione, con sentenza n. 4873 depositata il 1° febbraio 2017.

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