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Cronaca

Processo Rocchelli: 24 anni a Markiv, non concesse le attenuanti generiche

Sentenza pesantissima a Pavia al processo per la morte di Andrea Rocchelli durante gli scontri tra ucraini e separatisti. Malore per Della Valle in aula

Il 29enne Vitaliy Markiv è stato condannato a 24 anni di reclusione dalla corte d'Assise di Pavia per avere ucciso a Sloviansk, in Ucraina, il 24 maggio 2014 il fotoreporter italiano Andrea Rocchelli e il suo interprete Andrej Mironov. Nel fuoco rimase ferito anche il giornalista francese William Rougelon. Il terzetto si trovava insieme ad un tassista nei pressi della collina di Karachun, teatro di scontri a fuoco tra l'esercito e la guardia nazionale ucraini (asserragliati sulla collina) e i separatisti filo-russi (che controllavano il resto della città).

La sentenza è arrivata venerdì 12 luglio dopo circa cinque ore di camera di consiglio e un processo durato circa un anno, mentre Markiv (italo-ucraino, all'epoca militare della guardia nazionale) era stato arrestato due anni fa a Bologna, dov'era atterrato insieme alla moglie per fare visita alla propria famiglia, che vive nelle Marche. Le motivazioni saranno rese note entro 90 giorni. La difesa ha già annunciato il ricorso in Appello entro novembre. Il processo di secondo grado dovrebbe svolgersi a primavera del 2020 a Milano.

No alle attenuanti generiche

Il collegio giudicante, presieduto da Annamaria Gatto, ha aumentato le richieste del pm Andrea Zanoncelli, che erano state di 17 anni con le attenuanti generiche, non concesse dai giudici, mentre, in accordo con il pm, ha stabilito la trasmissione degli atti del processo alla procura di Roma, che deciderà se indagare anche Bogdan Matkivskyy, nel 2014 comandante della guardia nazionale a Sloviansk (e quindi superiore di Markiv) e attualmente deputato in carica alla Rada, il parlamento ucraino.

Il presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelenskyj ha promesso che farà «il massimo sforzo» per «restituire all'Ucraina il veterano Vitaliy Markiv» e, per il momento, ha istruito il servizio diplomatico in Italia affinché mantenga i più stretti contatti con lui. Nel pomeriggio di venerdì, in concomitanza con la lettura della sentenza, si è tenuto a Kyiv un presidio davanti all'ambasciata italiana per protestare contro la condanna.

Foto @vital_ovchar/Twitter

Protesta davanti ambasciata italiana Kyiv - Vitalii Ovcharenko Twitter-2

Malore per l'avvocato Della Valle

Alla lettura della sentenza, Raffaele Della Valle, uno dei due avvocati di Markiv insieme a Donatella Rapetti, ha accusato un malore e sono arrivati i sanitari del 118 con un'ambulanza presso la Sala dell'Annunciata di Pavia, dove si svolgeva eccezionalmente l'udienza. Fortunatamente il legale si è poi ripreso. Fissati risarcimenti di 10 mila euro per CesuraLab (il collettivo fotografico di Rocchelli), 5 mila euro per l'Associazione Lombarda Giornalisti e 5 mila euro per la Fnsi, mentre il risarcimento per la famiglia Rocchelli è stato rimandato a un processo civile, senza provvisionali.

Le parti civili: oltre alla famiglia anche Fnsi, Alg e CesuraLab

All'inizio dell'udienza le dichiarazioni spontanee dell'imputato, che si è sempre dichiarato innocente: «Non entro nel merito perché hanno già parlato i miei difensori. Sono un militare e un patriota, ho solo difeso il mio Paese. Ho fiducia nella giustizia italiana». Dopo la lettura della sentenza, mentre veniva portato via dai poliziotti, Markiv ha salutato gli oltre cento connazionali presenti gridando l'usuale saluto "gloria all'Ucraina", a cui gli altri hanno risposto "gloria agli eroi". Un modo abituale di salutarsi tra connazionali (e un saluto militare ufficiale dal 2018) che spesso viene scambiato erroneamente per uno slogan "nazionalista".

In passato alcuni avevano cercato di scatenare polemiche sull'atteggiamento degli ucraini che seguivano le udienze di questo processo, definendo "provocatorie" alcune manifestazioni come un applauso in aula a Della Valle (una sola volta, correttamente sanzionato dalla giudice Gatto con lo sgombero dell'aula) o lo stesso saluto "gloria all'Ucraina", definito «oltraggioso» da chi probabilmente non ne conosce il significato o lo travisa, o addirittura le fotografie di gruppo fuori dall'edificio del Tribunale in corso Cavour tra persone provenienti da varie parti d'Italia per seguire le udienze; e ci si era spinti a definire «teste rasate» e «visi tondi» alcuni dei partecipanti all'udienza, oltraggiando sì in questo caso persone con capelli corti ma non certo con simpatie di estrema destra.

La realtà è che di nazisti in Ucraina ce n'è forse meno che in Italia, e nessuno sicuramente alle udienze del processo Rocchelli. Venerdì, invece, in aula (mentre Markiv veniva portato via) qualcuno ha urlato "bandito" al suo indirizzo. Fortunatamente non ci sono state reazioni di nessun genere e quindi nemmeno momenti di reale tensione o caos.

I Rocchelli: «Non è comunque giorno felice»

Giorgio Reposo, procuratore capo di Pavia, ha affermato che «i giudici hanno accolto le tesi sostenute da noi». La famiglia di Andrea Rocchelli non ha voluto rilasciare molte dichiarazioni ma ha commentato che «per noi non è comunque un giorno felice. Si tratta di una sentenza importante per noi e per tutti i giornalisti che rischiano la vita». Visibilmente amareggiato, dopo essersi ripreso dal malore, Della Valle ha detto che «una sentenza del genere, senza una prova, fa perdere fiducia nella giustizia italiana; di più, fa quasi venire voglia di andarsene dall'Italia», sottolineando soprattutto la mancata concessione delle attenuanti generiche, da lui definita incomprensibile.

Della Valle ha aggiunto che, da quel che gli risulta, è la prima volta in Italia che un soldato straniero (pur con cittadinanza anche italiana) viene condannato per un reato che avrebbe commesso durante un combattimento. Ha poi detto che l'Ucraina è «uno Stato che non conta molto nello scacchiere europeo». Per commentare ulteriormente si è riservato di leggere le motivazioni.

I genitori e le sorelle di Vitaliy Markiv erano comprensibilmente troppo scossi per commentare a microfono, ma decisi a continuare la battaglia in vista del processo d'Appello. Paolo Perucchini, dell'Associazione Lombarda Giornalisti, ha detto che «un euro o un milione di euro di risarcimento non conta nulla. Quello che per noi è importante era sottolineare la difesa di chi fa informazione, che in Italia è un diritto costituzionale».

L'accusa: «I giornalisti avevano stufato»

Impossibile, prima di leggere le motivazioni, conoscere con precisione il ragionamento che ha portato la corte d'Assise ad accogliere la richiesta di condanna della procura e, in particolare, il motivo per cui a Markiv non sono state concesse le attenuanti generiche. Questa la ricostruzione del pm (che chiedeva la condanna per omicidio volontario): Markiv, inizialmente definito comandante sulla base di un articolo del Corriere della Sera del 25 maggio 2014 e poi corretto con soldato quando è stato evidente che non comandasse alcunché, era presente alla collina Karachun col compito di segnalare le posizioni di «persone sospette»; ha visto il taxi con Rocchelli, Mironov, Rougelon e l'autista avvicinarsi alla fabbrica di ceramiche Zeus ai piedi della collina; lo ha riconosciuto come tale; aveva coscienza che i taxi in quella zona portavano più volte i giornalisti e i reporter, che nei giorni precedenti avevano «stufato» (questa la parola usata dal pm Zanoncelli nella sua arringa); ha dunque segnalato la posizione del gruppo al suo comandante della guardia nazionale, il quale a sua volta l'ha trasmessa al suo pari grado dell'esercito ucraino che ha fatto fuoco con colpi di mortaio. 

Fondamentali per l'accusa sia l'articolo del Corriere, in cui il presunto «comandante» poi declassificato a soldato e identificato come Vitaliiy Markiv ammetteva di fatto che in quella zona si sparava (sparavano, ovviamente, entrambe le parti), sia la seconda testimonianza rilasciata da Rougelon, che salvatosi urlando di essere giornalista davanti ad alcuni separatisti ha detto di ritenere che i colpi provenissero dall'esercito ucraino.

La difesa: «Non c'è nemmeno una prova»

Una ricostruzione che gli avvocati Della Valle e Rapetti hanno cercato di smontare dall'inizio alla fine, anzitutto considerando che sulla scena, prima degli spari, era apparso un misterioso quinto uomo che, rivolgendosi a Mironov, aveva detto al gruppo di andarsene («gli spari sono iniziati quando è comparso lui, e da lì vicino, cioè dalle postazioni filorusse»). Lo stesso Rougelon ha affermato di avere sentito gli spari in primo luogo dalla parte della fabbrica, che era occupata dai separatisti. E Mironov, poco prima di morire, in un prezioso audio disponibile diceva che gli spari erano «lì vicini». Ancora, gli spari sono terminati quando Rougelon ha detto ai separatisti di essere un giornalista. E poi, dopo che questi l'han lasciato passare, è salito a bordo di un'auto di passaggio, ormai a qualcosa come 3 chilometri in linea d'aria dalle postazioni ucraine, e qualcuno ha sparato all'auto da dietro. A quella distanza non solo gli AK-74 in dotazione alla guardia nazionale ma nemmeno i mortai di cui disponeva l'esercito ucraino potevano colpire qualcuno, e certamente l'auto non poteva essere più vista. Ragionevolmente quindi sono stati i separatisti anche a sferrare i colpi finali.

Di più, mancano reali prove su tutti i passaggi della ricostruzione dell'accusa. Non c'è prova che Markiv fosse di turno a quell'ora (il suo comandante Matkivskyy ovviamente non lo ricorda), mentre, da quella che è stata individuata come la postazione di Markiv sulla collina, la visuale verso il punto in cui si trovava il gruppo era parzialmente coperta dalla vegetazione e da un edificio. Non c'è nemmeno prova che a sparare i colpi fatali di mortaio sia stato l'esercito ucraino, anzi tutto fa pensare il contrario: la maggior vicinanza, il fatto che i colpi siano cessati quando Rougelon incontrando i separatisti ha dichiarato di essere un giornalista, il fatto che Rougelon non abbia mai visto un solo membro dell'esercito o della guardia nazionale ucraini, i colpi finali sferrati all'auto con cui Rougelon è fuggito, la stessa iniziale testimonianza di Rougelon nella quale non volle provare a "presumere" da chi fossero partiti i colpi, la dichiarazione di due separatisti che hanno spiegato che, per andare a recuperare i cadaveri, si sono vestiti da civili («significa che gli ucraini non sparavano ai civili», ha commentato la difesa di Markiv). 

Quanto all'articolo da cui è partito il lavoro d'identificazione di Markiv, si sa che è stato scritto sulla base di una telefonata ascoltata da almeno due giornalisti italiani con lo stesso Markiv, che i reporter avevano conosciuto a Kyiv qualche mese prima durante Maidan. Lui li ha definiti più volte «amici», e amichevolmente si rapportava con loro. Tanto che uno dei due, in seguito, si è recato a trovarlo in ospedale (era stato ferito) e poi gli ha chiesto in regalo un giubbotto antiproiettile, che successivamente Markiv gli ha procurato. «Si sarebbero comportati così se avessero pensato di parlare con colui che aveva ucciso Rocchelli?», ha chiesto la difesa di Markiv in aula. E per di più, stando a quanto scritto nell'articolo, il soldato suggeriva ai giornalisti di non recarsi alla collina perché era una zona di combattimenti. Cercava quindi di tenerli lontani: tutt'altro rispetto all'intenzione di «uccidere i giornalisti perché avevano stufato», supposta dal pm. Infine nell'intervista parlava di «un giornalista e un interprete», informazioni che potevano essere note soltanto a chi lo intervistava, non a lui che, da oltre un chilometro, a stento avrebbe potuto vedere degli esseri umani, certamente non avrebbe potuto riconoscerli e certamente non avrebbe potuto individuare i loro ruoli, ma sicuramente ne avrebbe visti cinque e non due.

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