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Giovedì, 25 Aprile 2024
Cronaca

La truffa piramidale messa in atto da una società milanese

Nella rete oltre mille investitori che hanno "perso" più di 2 milioni di euro. Le indagini

Sede ufficiale a Milano, operatività a Trento e vittime in tutta Italia e perfino all'estero. La guardia di finanza di Trento ha scoperto una truffa piramidale, secondo le regole tipiche dello schema Ponzi, che ha portato nella rete oltre mille investitori che hanno "perso" più di 2 milioni di euro. Al vertice dell'organizzazione, smantellata dal nucleo di polizia economico-finanziaria, c'era un imprenditore 57enne di Aldeno. L'uomo era amministratore di diritto o di fatto (tramite teste di legno) di un consorzio mondiale di società operanti nel settore finanziario, con sedi in vari Paesi fra i quali l’Italia, la Slovacchia, il Lussemburgo, il Regno Unito e le Isole Vergini Britanniche.

Cuore di tale rete societaria internazionale erano gli uffici operativi di Trento, vero e proprio centro decisionale al quale facevano riferimento altri sette indagati - un lodigiano, quattro aquilani, un pescarese e un professionista milanese operativo a Bratislava - che rappresentavano l’entourage societario con filiali a Milano, Montefiascone (Viterbo) e Scurcola Marsicana (L’Aquila).

Nel corso delle indagini i finanzieri hanno rivolto la propria attenzione in particolare a una Srl con sede legale a Milano, ma operativa a Trento, che a partire dal 2016 ha raccolto da oltre un migliaio investitori, sia in Italia che all'estero. Tra questi, 227 in Trentino-Alto Adige, 76 nel Lazio, 58 in Lombardia, 57 in Toscana, 43 in Veneto, 38 in Piemonte, 35 in Emila-Romagna, 31 in Abruzzo, 144 tra Friuli, Liguria, Marche, Umbria, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna, ma anche 380 tra Svizzera, Austria e Germania.

Come funzionava la truffa della criptovaluta

Così il gruppo è arrivato a raccogliere oltre 2milioni e 200mila euro, proponendo loro un finto progetto finanziario consistente nel “minare” (letteralmente "estrarre", dall'inglese to mine) una criptovaluta attraverso l’acquisto di server utili alla coniazione. Agli ignari investitori veniva proposto l’acquisto di server in comproprietà, attraverso il pagamento di 200 euro più Iva per ogni quota, con la promessa che l'investimento, avrebbe reso fino a dieci volte il suo valore iniziale, a seguito di quello che il network societario avrebbe incassato.

Il tutto, millantando l’incentivazione dell’uso della criptomoneta che lo stesso network avrebbe garantito per mezzo dei numerosi partner e collaboratori a livello internazionale, e risparmiando sui costi energetici, che una presunta innovativa tecnologia in possesso sempre del gruppo societario avrebbe potuto permettere rendendo altamente performanti tutti i server, fittiziamente siti nella filiale di Montefiascone.

Gli investitori, secondo la "tradizione" delle truffe piramidali, venivano coinvolti tramite passaparola, cui faceva spesso seguito la partecipazione a serate informative, presso noti alberghi tra Trento, Pescara, Milano e Roma. Per invogliare gli investitori ad entrare a far parte del progetto, venivano inoltre illustrate le ideali prospettive di guadagno, comprensive di bonus per chi avrebbe portato all'interno del gruppo anche dei nuovi clienti.

Una volta incassati i soldi degli investitori, gli indagati li intascavano direttamente dalla Srl milanese, tramite false fatturazioni, tanto da determinare l'insolvenza e il fallimento dell'azienda e di una seconda società trentina appartenente allo stesso network.

Le indagini della Procura di Trento

A conclusione delle indagini, i finanzieri hanno denunciato a vario titolo alla Procura Distrettuale di Trento, gli otto componenti del sodalizio operativo in Trentino-Alto Adige che hanno realizzato la truffa piramidale in criptovaluta. Le accuse sono di associazione per delinquere, truffa aggravata, abusivismo finanziario, illecita raccolta del risparmio, falso in bilancio e bancarotta fraudolenta; inoltre, per il 57 trentino a capo dell’organizzazione è scattata la custodia cautelare in carcere.

Ma non è tutto: parallelamente alle indagini nei confronti dei presunti minatori di criptovaluta, i finanzieri hanno individuato un secondo gruppo, operativo nel Lazio ed in contatto col gruppo trentino, che a sua volta attraverso la redazione di un falso contratto commerciale tra una Srls di Cerveteri (nella veste di creditrice) e una società tedesca (nella veste di debitrice), e grazie ad una intromissione operata da hacker stranieri nei circuiti telematici di pagamento, inseriva nell’home banking del conto corrente societario della società un falso mandato di pagamento elettronico pari a un milione e 250mila euro.

L'altra truffa

Gli hacker, infatti, inserendosi nelle comunicazioni informatiche tra i server delle banche del creditore e del debitore, davano conferma all’istituto di credito laziale del deposito del contratto commerciale e dell’esistenza del relativo mandato di pagamento a favore della società italiana. Ciò traeva in inganno i dipendenti della filiale di Cerveteri dell’istituto di credito presso il quale era aperto il conto della Srls, i quali, credendo che a breve sarebbe arrivata la provvista dal cliente tedesco, concedevano un anticipo di pari importo alla società italiana. 

Successivamente i cinque indagati - due romani, un veneziano, un cosentino e un aquilano - autoriciclavano il denaro sottratto alla banca reimpiegandolo in altre attività attraverso una società croata controllata. In questo caso, i cinque sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere, frode informatica, truffa e autoriciclaggio. Un uomo è finito in carcere e tre ai domiciliari. Per un quinto è scattato l'obbligo di dimora.

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