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Cultura

Il promoter Trotta, Ambrogino d'oro: «I concerti da 60mila spettatori torneranno solo nel 2022»

L'intervista a Claudio Trotta, milanese e patron di Barley Arts: «La maggioranza delle maestranze non lavora, per adesso ha visto mille euro per un paio di mesi ed è in grave difficoltà». La sua "ricetta" per tornare a condividere emozioni live

Più di quarant'anni di vita dedicati ai concerti, a portare in Italia grandi nomi del rock e del pop internazionale, ad appassionare il pubblico attraverso la condivisione della musica, lottando contro le distorsioni del mainstream e investendo sulla passione della musica dal vivo. Ed ora, nel 2020, nell'anno del Covid e delle restrizioni (che hanno pesato e pesano tantissimo sul suo settore), a Claudio Trotta, milanese "doc" e patron di Barley Arts, arriva il riconoscimento dell'Ambrogino d'Oro. «Ne vado fiero», dice a MilanoToday all’inizio di una lunga chiacchierata sulle prospettive e le nuove modalità per tornare al più presto.

Che cosa ti ha reso più felice per questa onorificenza?

«La lettura delle motivazioni a sostegno della mia candidatura, perché ricordano che nella mia carriera sono sempre stato e mi sento un po' un Davide contro Golia: ho cercato di essere utile a me stesso e alla comunità, contribuendo a dare prestigio alla città, senza scegliere la via più facile e più facilmente remunerativa. Non ho mai aderito al "sistema" e alle regole di "mercato" troppo spesso sinonimi di omologazione culturale verso il basso, che è in atto da tempo e che si è ulteriormente sviluppata con la concentrazione di potere nelle mani di pochi che hanno "comprato" tutti i pezzi della filiera dello spettacolo nel mondo e non solo in Italia e che, in maniera acclarata, spesso abusano della loro posizione dominante. Sono felice quindi di essere stato riconosciuto come "benemerito" sotto questa luce. L'Ambrogino dimostra che essere sé stessi è faticoso e anche doloroso, ma anche che la meritocrazia nella nostra società ancora esiste».

Un elemento fondamentale nello spettacolo, nella musica, nel cinema è stare insieme, condividere. Si è fatto abbastanza per salvare questo grande momento di condivisione?

«No, non credo si sia fatto abbastanza. Come per la scuola e la giustizia, che insieme alla cultura sono stati messi in attesa un po' troppo frettolosamente, ma che - assieme alla salute - sono i cardini di una società democratica. E' inquietante pensare che altri mondi non si siano mai fermati, penso ai monopoli di Stato o ai consumi nei grandi magazzini come se fosse più importante fumare, mangiare e bere rispetto a conoscere».

Che cosa non ha funzionato nella narrazione dell'era Covid e nel modo di affrontare l'emergenza?

«Credo che i media abbiano spesso alimentato la paura, spettacolarizzando gli eventi. Si è generata una scioccante attitudine: parrebbe che milioni di persone abbiano scoperto che si può morire in qualsiasi momento solo adesso. Spagnola, Epatite C, Aids parrebbero avere riguardato "altri", ma gli "altri" siamo sempre stati "noi". Non solo, ma si muore anche di cancro, di mancanza di cure, di malasanità, del fatto che negli ultimi trent'anni la politica, nel mondo, abbia tagliato in modo criminale la sanità pubblica. Ed ora pare che predomini una richiesta di limitazione della libertà e di attribuzione delle principali responsabilità della diffusione del contagio ai comportamenti personali e collettivi delle persone, quelle stesse che subiscono la mancanza di un sistema sanitario adeguato. Richiesta pericolosa perché arriva dal basso. Ora si attribuisce la diffusione del virus troppo spesso ai comportamenti della gente, ma credo sia chiaro che siano stati fatti errori colossali nella gestione della pandemia».

Torniamo allo spettacolo. Dicevi che è stato messo frettolosamente in attesa.

«Si è chiuso troppo presto un mondo vitale per la comunità come quello della cultura e dello spettacolo. Non credo sia utile la modalità della chiusura a intermittenza, né trovo scientifiche o accettabili le modalità di limitazione delle capienze sancite dal Dpcm del 17 maggio senza una connessione diretta con le caratteristiche e le dimensioni dei singoli spazi e della gestione dei flussi di ingresso e uscita delle persone. Trovo anche insensato immaginare che si possa andare avanti ad libitum con ristori, bandi e quant’altro le cui modalità sono spesso fonte di criticità e disuguaglianze. Non può bastare l'assistenzialismo. Non credo che l'esperienza live possa essere sostituita da uno strumento virtuale. Lo streaming può essere un mezzo per far conoscere e aiutare il nuovo. Può essere in aggiunta, ma non sostitutivo del live. L'esperienza dal vivo ha più di duemila anni di vita, la musica riprodotta è un "bambinetto" di 150 anni, ancora meno la digitalizzazione, immaginarsi lo streaming che è ai primi vagiti. Dirlo non è nostalgia ma rispetto della storia. La vita è fatta di condivisione, accessibilità, non di isolamento e partecipazione finta ad eventi. Non si schiaccia un bottone per simulare le nostre emozioni.

Parliamo meglio di streaming: è un'alternativa convincente?

«Da un punto di vista economico e finanziario lo streaming in questa fase è uno strumento utile soprattutto a chi è famoso o per alcune nicchie che possono praticare prezzi peraltro spesso già troppo alti per la vendita dei "biglietti di accesso". Per la maggioranza di chi lavora nello spettacolo, nei teatri, nei pianobar, nelle orchestre e nei club, per tutto il ricchissimo mondo culturale della "provincia" italiano lo streaming non è uno strumento, perché non c’è interesse sufficiente da parte del pubblico che giustifichi l’impegno economico e produttivo a realizzarlo. Ma quella che ho parzialmente descritto è la maggioranza del mondo dello spettacolo, che vive quotidianamente del proprio lavoro. E' sbagliato rappresentare il mondo dello spettacolo come quello dei grandi numeri perché, se è vero che rappresentano la maggioranza sul fatturato, sulla quantità quotidiana dello spettacolo sono una piccola minoranza. La stragrande maggioranza è tutto il resto, ed è ferma perché oltre a non poter lavorare, non può usare lo streaming, ha un accesso limitato ai bonus e ai ristori, ed è in grande difficoltà. Ma non è solo un problema economico. Chi ha scelto lo spettacolo vive, dal punto di vista culturale, psicologico e umano, del fare spettacolo, dell'essere in mezzo alla gente. Se la chiudi in casa la "uccidi"».

Avete avanzato proposte come operatori?

«Insieme a Slow Music, a medici e a professionisti del settore, abbiamo prodotto ad aprile un ricco protocollo ("Vengo anche Io per Sentire L’effetto che fa"), messo a disposizione del Governo, dell'Agis, di Assomusica, dell’Anci e dei promoter italiani, che prevedeva, nel rispetto del distanziamento fisico e di rigorose norme sanitarie, una capienza in base alle caratteristiche dello spazio: non solo le dimensioni, ma anche la modalità di flusso, la sanificazione dei bagni e della ristorazione, la modalità di vendita dei biglietti. Suggerivamo di riaprire l'1 agosto 2020 per dare il tempo a tutti di prepararsi. Il Governo, il 17 maggio, ha deciso, per me sbagliando, di riaprire l'1 giugno, troppo presto per organizzarsi con nuove modalità, e con l'idea nefasta di limitare le capienze a duecento persone al chiuso e mille all'aperto a prescindere dal tipo di spazio. Meritoria e significativa "L’Estate al Castello Sforzesco" che, con l’intelligente adozione di una piantina dinamica dello spazio che teneva conto delle autodichiarazioni del pubblico, ha consentito a molte persone di partecipare in sicurezza agli spettacoli».

Come immagini lo spettacolo dal vivo nell'era post-Covid?

«Si dovrà cogliere l'opportunità di una possibile ripartenza e recepire una lezione: rispettare la qualità, la bellezza della condivisione senza il predominio della speculazione. Si dovranno migliorare tutti i servizi per il pubblico e provare a concepire spettacoli meno impattanti con il già assai compromesso equilibrio climatico e biologico del pianeta. Per esempio, le grandi tournée internazionali con centinaia di Tir in giro per l'Europa, pieni di attrezzature, inquinano il continente e limitano la possibilità di lavoro per le aziende locali europee ormai quasi sempre di altissimo livello professionale. Si va ad ascoltare qualcuno per la qualità delle canzoni e per poter vedere le emozioni di chi canta e suona, non perché ci sono trenta schermi anziché tre, o montagne di luci anziché quelle che servono a raccontare ciò che succede sul palco. Alcuni concerti sono ormai indistinguibili da un X-Factor o da un Festival di Sanremo. Invece conta il piacere di stare insieme, emozionarsi. Infine: nel jazz e nel musical si fanno già le doppie repliche in certi giorni della settimana e le teniture di più giorni nella stessa città. Perché per i concerti pop e rock non si possono fare due spettacoli al giorno o restare più giorni in spazi più a misura d’uomo? Mi rendo conto che questi concetti possano essere mal recepiti da una parte della "industria" della musica e che la grande filiera dello spettacolo difficilmente lo recepirà ma il senso è più eventi, più lavoro per tutti, più qualità».

Spettacoli meno "sovrastrutturati", doppie repliche. E poi?

«Bisogna rivedere alcuni punti finora in secondo piano, rivedere il prezzo dei biglietti, la loro modalità di vendita, mettere un freno una volta per tutte al secondary ticketing che appena si ricomincerà ripartirà subito. In tempi non sospetti dicevo che il biglietto nominale è importante anche dal punto di vista sanitario, ora è fondamentale. Speriamo che tutte queste cose siano richieste dal basso, e che le persone facciano emergere il desiderio di vivere consapevolmente, non come consumatori ma come protagonisti delle proprie scelte e della qualità degli eventi a cui partecipano. Stiamo anche lavorando ad un protocollo specifico per gli spettacoli al chiuso, nel rispetto del distanziamento, che sarebbe sempre preferibile chiamare fisico anziché sociale. Ma occorre individuare un tampone rapido o un test che sia valido e sostenibile economicamente».

Riesci a fare una previsione realistica su quando lo spettacolo potrà ripartire?

«Per i teatri medio-piccoli, con posti assegnati e numerati, penso primavera del 2021. Per gli eventi di massa, credo che l'estate del 2021 non sarà possibile. Alcuni stanno dichiarando il contrario; io non voglio essere "ottimista sciocco", non riesco a immaginarmi un 2021 con concerti in stadi da 60 mila persone. Non è pensabile che così tante persone possano essere vaccinate in pochi mesi. E' più plausibile il 2022, fermo restando che ci sarà un "traffico" pazzesco tra eventi riprogrammati fin d'ora e quelli che si aggiungeranno».

Parliamo di fatturati e compensi. Sappiamo che il settore è in grave crisi. Puoi darci una quantificazione e vie d'uscita?

«E' presto detto: il fatturato della maggioranza delle società che producono spettacoli dal vivo nel 2020 è crollato al 2-3% dell'anno precedente. La maggioranza delle maestranze non lavora, per adesso ha visto mille euro per un paio di mesi ed è in grave difficoltà. Voglio sottolineare che la parola maestranze deriva da maestria, cioè dalla storia secolare di questo Paese che vive sulla fantasia e sull'esperienza tramandando, appunto, secoli di maestria. Non capire l’importanza delle maestranze e pensare che principalmente il problema sia non poter fare grandi concerti significa non conoscere la storia dello spettacolo. Molti si sono convertiti in rider o lavorano per Amazon. Ma se hai dedicato una vita ad una professione, vorresti che questo venisse rispettato dal Paese, dal mondo e dalla filiera in cui vivi».

In che senso e misura non è accaduto?

«Ogni tanto ci sono artisti che lanciano grandi azioni di solidarietà, ma la sostanza è che si è sbagliato a maggio 2020 quando, contestualmente al Dpcm nefasto che ha deciso capienze fisse di duecento persone al chiuso e mille all'aperto, Assomusica, insieme a Live Nation e a tutte le società di proprietà di Eventim, casa madre di Ticketone: Vivo Concerti, Friends and Partners, D'Alessandro e Galli e Vertigo, hanno comunicato che "non si poteva lavorare e che ci si sarebbe rivisti nel 2021". Messaggio per me scellerato, come scellerato che i media lo abbiano rappresentato come fosse tutto il mondo dello spettacolo, che invece è tutto il resto che vive quotidianamente del proprio lavoro ed è in difficoltà economica e psicologica. Ed è in difficoltà la cultura, che è equilibrio di un popolo, di un gruppo di persone, di una famiglia, di una città, di un Paese, e nasce dalla condivisione di esperienze e arte. E serve a curare ferite, vivere meglio, capire meglio chi siamo e alimentare sogni e speranze per le nuove generazioni. L'Ambrogino a me, in questo senso, è credo molto significativo». 

Un simbolo?

«Dare la benemerenza civica a me, che da tutta la vita, credo di poter dire, lotto contro un sistema di pensiero e di azione troppo spesso disumani, è un segnale che forse siamo in tempo per cambiare rotta a 360 gradi. All’inizio del Covid dicevo una cosa che per ora non vedo accadere, dicevo "forse stiamo vivendo la fine di un lungo Medioevo, forse dopo ci sarà un nuovo Rinascimento". Me lo auguro ancora - al momento non lo vedo - e speriamo succeda soprattutto per chi deve ancora nascere e non ha colpe, e invece erediterà un mondo che noi esseri umani abbiamo contribuito a far diventare troppo spesso un grande orrore».

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