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Giovedì, 28 Marzo 2024
Cultura

Da Milano a New York per raccontare l'arte dei maestri dei graffiti

Intervista a Francesco Mazza, milanese, laureato alla prestigiosa New York Film Academy, che ha realizzato un documentario sulla storia dei graffiti della Grande Mela, in onda venerdì 20 novembre su Sky Arte presentato da Buffa. L'occasione per dialogare sull'arte dei murales e la situazione cittadina

Francesco Mazza è milanese, ha 30 anni, ha studiato alla prestigiosa Film Academy di New York, città in cui attualmente vive, e quest’anno ha presentato al Festival di Cannes il suo cortometraggio "Frankie (Italian Roulette)" nella sezione Short Corner dedicata ai talenti emergenti.

Il suo nuovo lavoro si chiama “Graffiti a New York”, un documentario che racconta, attraverso gli occhi e la voce del giornalista Federico Buffa, la nascita del movimento del graffiti writing nella Grande Mela e che andrà in onda venerdì 20 novembre alle 21.30 su Sky Arte. MilanoToday l'ha intervistato. L’ispirazione per quest'opera sia arrivata da lontano, da un luogo a lui molto caro: Milano.

I graffiti a New York su SkyArte

Come nasce "Graffiti a New York"?

"La Milano degli anni '90 era un centro culturale incredibile. Sono cresciuto a Lambrate e a pochi metri da casa mia c'erano i muri della ferrovia, su cui vedevo i pezzi di Rae e Styng 253: enormi, coloratissimi, pazzeschi. Ne rimasi affascinato perché nella contraddizione di quella violenza creativa trovai, inconsciamente, l'espressione di tutte le contraddizioni della mia adolescenza. Vent'anni dopo, a New York, ho conosciuto i pionieri che quella forma d'espressione la crearono dal nulla alla fine degli anni '60 e così è nato "Graffiti a New York".

Quali differenze ci sono tra la street art newyorkese e quella milanese? 

"Street Art" è un termine ingannevole. Quando nel 2005 Bansky è esploso a livello mondiale, il mondo dell'arte aveva l'urgenza di presentarlo come un qualcosa di nuovo, per attirare la curiosità dei collezionisti. Così è stato coniato il termine "Street Art". Purtroppo con il tempo le cose si sono complicate e soprattutto da noi la Street Art è diventata sinonimo di qualcosa di "bello" a prescindere mentre il graffiti writing come qualcosa di "brutto". Tutto questo non ha senso e in posti come New York, Berlino, Amsterdam o Parigi lo sanno benissimo. Purtroppo da noi si fa ancora molta confusione, alcuni impostori sono riusciti ad accreditarsi come punti di riferimento per le Istituzioni a svantaggio di altri, ben più meritevoli. Ma è solo una questione di tempo, prima o poi i valori saranno ristabiliti". 

Quali sono gli spazi newyorchesi prediletti per i graffiti e quali sono invece quelli di Milano?

"New York ha messo in atto una repressione durissima contro il fenomeno, che però non ha portato grandi risultati. I muri di Brooklyn, il Bronx e il Queens sono piene di tags come e più che negli anni '70. Tuttavia, i luoghi sacri dello shopping dei turisti europei sono severamente protetti e immacolati. Milano ha recentemente visto nascere l'iniziativa "100 muri liberi", grazie alla quale non solo vengono dati spazi necessari a esprimersi ma viene lasciato ai writers il diritto di auto regolamentarsi. È un fatto inedito e sicuramente positivo che penso possa trasferire molte energie dall'ambito illegale a quello legale".

Come si possono valorizzare i talenti e scoraggiare, allo stesso tempo, i vandali che si limitano a sporcare e involgarire la città?

"Il documentario punta proprio a questo argomento. In un sistema come il nostro, caratterizzato dallo squilibrio economico riassunto dai palazzoni grigi e tutti uguali delle periferie, le forme d'espressione come il graffiti writing sono una valvola di sfogo per dire "Io esisto". Non ho alcuna soluzione da offrire per scoraggiare un fenomeno di dimensioni mondiali, mi limito ad osservarlo come una delle manifestazioni più caratterizzanti dell'epoca in cui viviamo". 

Tu sei milanese, hai frequentato la New York Film Academy e vivi nella Grande Mela. Come ti destreggi tra il sogno americano e la nostalgia di casa?

"Gli Stati Uniti sono come un grande Real Madrid: qualunque cosa tu faccia, qui ci sono i migliori e riuscire a trovare un posto è durissima. Tuttavia, per quanto difficile o a volte impossibile possa sembrare, in America ad essere in causa è solo e sempre la qualità del tuo lavoro ed è solo grazie ad essa che riesci a procurarti delle opportunità. La mia impressione è che in Italia della qualità del tuo lavoro non importi niente a nessuno e sia solo un problema di relazioni".

Qual è il tuo rapporto con Milano? Potrebbe diventare protagonista di qualche tuo lavoro?

"Milano è una città che ama raccontarsi in modo molto peggiore di come effettivamente è: a volte apro Facebook, leggo quelle battute spiritosissime scritte da studenti fuori-sede secondo cui i milanesi sarebbero macchiette cocainomani in grado di dire solo "top" o "ciaone" e mi viene da vomitare. Io non ho nostalgia dell'Italia, ho nostalgia di Milano e spero di poterci lavorare in futuro". 

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