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Dossier La Storia

Rocco Morabito, narcos nella Milano da bere

Giovanissimo arriva nel capoluogo lombardo nella seconda metà degli anni '80, dove le cosche affiancano ai miliardi del narcotraffico l'ingresso nell'economia legale: così “U Tamunga” si muoveva tra narcotrafficanti e colletti bianchi

Quella di Rocco Morabito alias “U Tamunga” è una storia che nasce in Calabria nel 1966, ad Africo Nuovo, poco meno di 2.800 abitanti affacciati sulla costa Ionica, e che oggi finisce (forse) su un volo di Stato di rientro dal Brasile in esecuzione di un provvedimento di estradizione. In mezzo la vita di colui che ha tirato le fila del narcotraffico internazionale degli ultimi quarant’anni e che ha avuto uno dei suoi passaggi cruciali nella Milano da bere, quando non ancora trentenne, inondava la città di cocaina e acquistava attività commerciali per riciclare denaro e non destare troppi sospetti.

Gli inizi e l’arrivo a Milano

Africo Nuovo nasce quasi per caso: diventa, senza nessun progetto urbanistico e sociale, il fazzoletto di terra dove vengono accolti gli abitanti di Africo, costretti a lasciare il paese aspromontano dopo che un'alluvione durata quattro giorni ha di fatto cancellato il borgo nel 1951. Così una comunità costituita perlopiù da pastori si ritrova sulla costa dopo aver peregrinato nei paesi vicini per circa sette anni. Nel 1958 per gli ex abitanti di Africo, si aprono dunque le porte di Africo Nuovo.

Tra loro c’è la famiglia di Rocco Morabito, che nasce nel 1966 e vanta già parentele di primo piano nell’orbita della ‘ndrangheta: è infatti cugino di secondo grado di Giuseppe Morabito, detto “Tiradrittu”, colui che porterà il clan Morabito-Palamara-Bruzzaniti ai piani alti della criminalità organizzata calabrese, soprattutto grazie ai denari accumulati nella stagione dei sequestri a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80.

Le ‘ndrine di Africo però hanno già un piede nella modernità e mettono le mani sugli appalti per mense e alloggi studenteschi dell’Università di Messina. Business redditizi che affiancano con successo ai primi “diplomifici” mascherati da istituti scolastici privati fondati da quel discusso prelato che rispondeva al nome di Don Giovanni Stilo (accusato e processato più volte, ma sempre assolto). Questa però è un’altra storia perché “U Tamunga”, storpiatura del modello fuoristrada Dkw Munga che Morabito guidava per i sentieri di Africo, si fa le ossa proprio nel business dell’Università di Messina, insieme a due complici che caratterizzeranno anche i suoi anni milanesi.

Rocco Morabito è proiettato nel futuro e sviluppa i canali del narcotraffico e anche quelli relativi al riciclaggio del denaro. Si muove dai locali alla moda di piazza Diaz ai ristoranti esclusivi della Milano da bere

A ventidue anni Rocco Morabito si guadagna la sua prima denuncia in tandem con due studenti mediorentali poco più anziani di lui, esponenti del Fronte di Liberazione palestinese, che trafficano droga con le cosche della Jonica. Sono i giordani Hassan e Waleed Issa Khamays, meglio noto nell’ambiente come “Ciccio”. I tre, iscritti all’Università di Messina, intimidiscono con una pistola poggiata sul banco uno dei docenti dell’ateneo. Vicenda da cui escono scagionati anni dopo.

Ma è proprio in quel periodo che si ritrovano negli archivi giudiziari e di polizia le prime tracce di Morabito a Milano: il Reparto operativo antidroga dei carabinieri pizzica sia lui sia Khamays in città a cavallo tra il 1986 e il 1987 nell’ambito di una inchiesta su una organizzazione criminale che metteva insieme turchi, giordani ed esponenti della criminalità organizzata calabrese.

Cocaina e affari nella Milano da bere

Come gli affari della cosca, Rocco Morabito è proiettato nel futuro e sviluppa i canali del narcotraffico e anche quelli relativi al riciclaggio del denaro. Si muove dai locali alla moda di piazza Diaz ai ristoranti esclusivi della Milano da bere, in un periodo storico in cui i soldi delle cosche fanno gola anche ai titolari di attività commerciali che non ci pensano un attimo a vendere a un offerente in grado di girare per Milano con una valigetta 24 ore dove sono stipati 3 miliardi delle vecchie lire.

Nel triangolo tra il civico 18 di via Bordighera, dove risulta residente, di via Benaco al 26, dove aveva residenza il “socio” giordano Khamays, e Casarile (provincia di Pavia), dove effettivamente risiedeva, si sviluppano gli anni milanesi di Morabito. Con disinvoltura entrava in banca, incontrava professionisti di grido nel centro di Milano, e poco più tardi si spostava a un incontro con i boss calabresi e gli esponenti colombiani del cartello di Cali a cui consegna 2,9 miliardi di lire. Il tutto fotografato dagli uomini della Squadra mobile che lo ritraggono insieme al cognato Domenico Mollica, snodo fondamentale delle cosche a Milano in quel periodo. È il 15 marzo del 1994, la prima Repubblica è al tramonto, a Milano governa Marco Formentini, che al ballottaggio ha superato il candidato del centro sinistra Nando Dalla Chiesa, mentre a Roma si sta per chiudere l’esperienza del governo Ciampi e si affaccia il primo governo Berlusconi.

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Morabito intanto si circonda sempre dei professionisti giusti e delle teste di legno necessarie per costituire società in Svizzera per poter spostare i soldi del narcotraffico. A mettere in fila i carichi di “neve” che fioccano su Milano grazie a Rocco e ai suoi uomini è una lunga indagine della questura, iniziata due anni prima, che sfocia in una informativa al pm Laura Barbaini il 26 agosto del 1994. Quei 2,9 miliardi ai narcos arrivati dalla Colombia sono infatti il compenso per la cocaina in arrivo dal Sudamerica. Alla fine gli investigatori sono stati in grado di ricostruire l’importazione di quantitativi a fronte del quale “venivano eseguite operazioni bancarie per il trasferimento in Colombia di 13 miliardi di lire”. Per i tempi un fiume di denaro.

La latitanza

A incastrarlo una consegna di oltre mezza tonnellata di cocaina non andata a buon fine a Fortaleza in Brasile nel luglio del 1992. La droga sarebbe dovuta arrivare via mare in Italia. A indagini chiuse il 13 ottobre del 1994, giorno del ventottesimo compleanno di “U Tamunga” le forze dell’ordine arrestano 21 persone: lui, la ventiduesima non si trova. E non si troverà per i 23 anni successivi, perché i contatti in tutto il Sud America costruiti nel tempo, lo accolgono, lo proteggono e secondo gli inquirenti gli consentono di continuare il business della cocaina. Deve scontare in Italia trent’anni di carcere.

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Nel 2017 la polizia uruguaiana, in tandem con la direzione distrettuale antimafia di Reggio, arresta in un albergo a Montevideo l’uomo d’affari brasiliano Francisco Antonio Capelletto Souza. Souza è sposato con una donna di origine angolana con passaporto portoghese, la stessa donna con cui Morabito fino al 1992 ha gestito in via Sabotino 9 a Milano un bar. Capelletto Souza altri non è che Rocco Morabito: lo confermano anche le impronte digitali.

La storia però non è finita perché l’uomo in attesa dell’estradizione viene messo in carcere in Uruguay. Nel giugno del 2019 fugge e sarà catturato di nuovo solo due anni più tardi in Brasile. Un anno più tardi si completa così il processo di estradizione, in bilico fino all’ultimo con San Paolo che nei giorni scorsi ha reclamato la presenza di un procedimento a carico di Morabito in Brasile che ne avrebbe impedito la partenza. Il raccordo con l’ambasciata italiana in Brasile, le autorità di polizia europee e le autorità brasiliane ha però dato frutti e si è giunti al termine. All’alba di ieri l’atterraggio di Morabito a Ciampino ha (forse) sancito la chiusura del cerchio.

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