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Venerdì, 29 Marzo 2024
Dossier Sanità smontata/1

La catena di smontaggio della medicina territoriale lombarda

Da Formigoni a Fontana passando per Maroni: il paradosso dello smontaggio della medicina territoriale nella regione delle “eccellenze”

A distanza di due anni dall’inizio della pandemia sono in tanti a chiedersi che cosa abbia contribuito al collasso del sistema sanitario lombardo e in particolare di quello milanese. Prima della diffusione del nuovo coronavirus, la Lombardia era considerata un’eccellenza, un territorio in cui poter trovare cure all’avanguardia. Ancora oggi è così, ma questa è soltanto una parte della realtà, perché la pandemia da Covid-19 ha dimostrato che la sanità lombarda ha due problemi strutturali da dover affrontare: il predominio delle grandi aziende private e l’assenza di presidi per la medicina territoriale e per la prevenzione. Sono proprio queste due criticità che hanno contribuito negli anni a diffondere una visione “ospedalocentrica” della sanità. Un ritorno al passato in cui l’ospedale è il centro della cura del paziente. Un sistema che a fronte della creazione di alcune eccellenze, rimaste eccezioni, ha di fatto progressivamente impoverito il sistema sanitario basato sulla prossimità e sul territorio.

La riforma del 1997

Il primo provvedimento che ha cambiato radicalmente l’organizzazione del servizio sanitario regionale è stato quello approvato nel 1997 dall’ex presidente della Regione Roberto Formigoni. “Si decise di separare la medicina del territorio da quella ospedaliera”, spiega l’igienista Vittorio Carreri, che ha guidato il dipartimento di prevenzione pubblica regionale dal 1973 al 2003. La giunta Formigoni, con l’allora assessore alla Sanità Carlo Borsani, decise di far confluire gli ospedali in ventisette Aziende ospedaliere (Ao) e di affidare la gestione del territorio a quindici Aziende sanitarie locali (Asl). 

“In questo modo, ospedali e territorio sono diventati istituzioni incapaci di comunicare”: secondo Carreri, prima del 1997 la Lombardia aveva un sistema migliore rispetto a quello delle altre regioni italiane. Nel corso degli anni invece la situazione è peggiorata, perché i servizi di prossimità, come la prevenzione e la medicina generale, sono stati messi da parte: è anche per questo motivo che ora si fa fatica a trovare medici di famiglia disponibili. Mentre l’assistenza primaria era costantemente svalutata, quella ospedaliera continuava a crescere grazie all’appoggio dato dalla Regione ai gruppi privati.

Ascesa e caduta di Roberto Formigoni Roberto Formigoni è stato presidente della Regione Lombardia ininterrottamente dal 1995 al 2013. Storico appartenente a Comunione e Liberazione, deputato della Democrazia Cristiana e poi uomo forte in Lombardia di Forza Italia e dei progetti politici successivi di Silvio Berlusconi, durante il suo ultimo mandato è stato coinvolto nell’inchiesta giudiziaria sulla gestione dei fondi della Fondazione Maugeri e dell’ospedale San Raffaele di Milano, due importanti strutture sanitarie private. Secondo l’accusa, mentre Formigoni era governatore, 61 milioni di euro sono stati sottratti illecitamente dal patrimonio della Maugeri e del San Raffaele in cambio di concessioni e favori ai due enti. Nella vicenda erano coinvolti anche l’ex direttore amministrativo della Fondazione Maugeri Costantino Passerino, l’imprenditore Carlo Farina, l’uomo d’affari Pierangelo Daccò e l’ex assessore regionale alla Sanità Antonio Simone. Nel 2019, Formigoni è stato condannato in via definitiva per corruzione a cinque anni e dieci mesi. Attualmente si trova ai domiciliari.

Il principio ispiratore della legge del 1997 fu quello della “libera scelta”, che in teoria avrebbe dovuto garantire al cittadino la possibilità di decidere da chi farsi curare, ma nella realtà dei fatti ha acuito le disuguaglianze. Durante quegli anni la Regione iniziò a stipulare contratti con le aziende private, affinché erogassero prestazioni in convenzione con il servizio sanitario. Questo mise sullo stesso piano gli ospedali pubblici e quelli privati.

“Formigoni ha superato la legge nazionale del ’78, in cui è stabilito che la sanità privata deve essere integrativa e non sostitutiva”, chiarisce Carreri. Da quel momento in Lombardia è stato istituito un mercato in cui pubblico e privato concorrono liberamente, nonostante non siano soggetti alle stesse dinamiche. Come spiega Vittorio Mapelli, professore di Economia sanitaria alla Statale di Milano, Formigoni ha preso spunto dal modello inglese introdotto da Margaret Thatcher e lo ha rivisitato, facendo in modo che la fase di contrattualizzazione delle singole aziende nella maggior parte dei casi non preveda nessuna negoziazione sul volume e la tipologia dei servizi da offrire. Può sembrare un mero aspetto tecnico, ma è di fondamentale importanza: perché è proprio questa mancata negoziazione che fino ad oggi ha permesso al privato di decidere quali interventi effettuare, consentendogli di scegliere quelli più redditizi.

Cosa significa sistema convenzionato? Le strutture private che erogano servizi sanitari possono decidere di lavorare in convenzione con il sistema sanitario nazionale: in questo modo oltre ad offrire visite ed esami a pagamento, garantiscono anche la possibilità di accedere alle prestazioni in modo gratuito o attraverso il pagamento dei ticket previsti dal ministero della Salute. Si comportano quindi come le strutture pubbliche e ricevono una quota delle risorse contenute nel Fondo sanitario nazionale, che gli serve a rientrare dei costi sostenuti per i ricoveri e le visite. Per poter lavorare in regime di convenzione, gli ospedali e le cliniche private devono richiedere l’accreditamento presso le istituzioni regionali, che si occupano di verificare gli standard qualitativi delle strutture. Successivamente, verrà stipulato un contratto per regolare i rapporti tra le parti e stabilire un tetto di spesa da non superare.

“Dal 1996 al 2000, il fatturato delle aziende ospedaliere pubbliche è aumentato del 3,6%, quello delle realtà private del 49,8%”, aggiunge Mapelli. Negli anni quindi il privato è cresciuto più del pubblico e si è rafforzato: oggi in Lombardia il 10% dei posti letto disponibili appartiene a strutture di ricovero private. Il problema, secondo Mapelli, è che nella costruzione di questo mercato non è stata considerata la diversità che intercorre tra pubblico e privato: “Non sono realtà soggette alle stesse regole. Il pubblico è vincolato a una serie di norme, come il blocco delle assunzioni, a cui deve sottostare per forza. Il privato invece è molto più libero”. Anche questo non è soltanto un aspetto tecnico: è proprio l’assenza di vincoli stringenti che permette al privato di investire risorse nelle specialità più complesse (e quindi più remunerative), lasciando al pubblico la gestione degli interventi di routine. In questo modo nello stesso sistema sanitario convivono cure all’avanguardia e liste d’attesa lunghissime per gli esami più semplici. Questa contraddizione è acuita dalla frammentazione della medicina di prossimità: non avendo punti di riferimento sul territorio (medici di medicina generale o ambulatori per le cure di base), i cittadini si rivolgono sempre e comunque agli ospedali. Come sottolinea Mapelli, le difficoltà non nascono dalla presenza del privato-accreditato ma dalla sua gestione.

Formigoni ha preso spunto dal modello inglese introdotto da Margaret Thatcher e lo ha rivisitato, facendo in modo che la fase di contrattualizzazione delle singole aziende nella maggior parte dei casi non preveda nessuna negoziazione sul volume e la tipologia dei servizi da offrire. Può sembrare un mero aspetto tecnico, ma è di fondamentale importanza: perché è proprio questa mancata negoziazione che fino ad oggi ha permesso al privato di decidere quali interventi effettuare, consentendogli di scegliere quelli più redditizi

La riforma Maroni del 2015

I problemi sollevati sin qui non sono stati risolti dalla riforma del 2015. Dopo il terremoto giudiziario che ha coinvolto la giunta di Formigoni, l’allora presidente della Regione Roberto Maroni decise di cambiare l’assetto della sanità lombarda, allontanandosi moltissimo dalle prescrizioni nazionali: le Asl e le Aziende ospedaliere scompaiono e al loro posto vengono create le Agenzie di tutela della salute (Ats) e le Aziende socio sanitarie territoriali (Asst). L’obiettivo di Maroni e del suo assessore alla Sanità Giulio Gallera era riunificare ospedale e territorio, e separare la programmazione dall’erogazione dei servizi. Alle Ats viene infatti demandata la pianificazione dell’offerta sociosanitaria, mentre alle Asst è affidato il compito di effettuare visite, ricoveri e interventi, occupandosi sia della medicina di prossimità sia dell’assistenza ospedaliera.

“Se ci sono ventisette Asst e otto Ats, si capisce dove si va a finire”, sottolinea l’igienista Carreri. Asst e Ats sono ancora oggi enti che comunicano poco e che spesso si sovrappongono. L’Ats di Milano deve amministrare un territorio con 3,5 milioni di abitanti. “Queste agenzie non si sa bene che cosa debbano fare: in teoria dovrebbero acquistare e programmare, ma in realtà svolgono funzioni che appartengono alla Regione”, spiega il professor Mapelli. Tentando di discostarsi da Formigoni, la giunta Maroni ha reso ancora più confusionaria l’organizzazione del servizio sanitario. Ed è proprio grazie a questa confusione che il settore privato ha continuato a imporre il suo dominio, privilegiando una visione ospedalocentrica dell’assistenza. Secondo il rapporto Oasi 2019 elaborato dall’Università Bocconi, la Lombardia è la regione che spende più risorse nei rimborsi al privato accreditato: quasi il 30% del fondo sanitario regionale viene destinato alle strutture convenzionate.

Il problema dell'Ats Milano Secondo il dottor Carreri, uno dei problemi principali della riforma approvata nel 2015 è la creazione di un’unica Ats per tutta la città metropolitana di Milano e la provincia di Lodi. Un territorio molto vasto e anche piuttosto complesso, che forse avrebbe bisogno di una gestione più capillare. Prima della legge Maroni, la città metropolitana di Milano e la provincia di Lodi erano organizzate in cinque diverse Aziende sanitarie locali (Asl): oggi invece c’è un unico ente per più di tre milioni di abitanti. L’Ats gestisce autonomamente nove diverse Asst.

Per Carreri dal 2015 in poi c’è stata la totale frammentazione della medicina di prossimità: in primis, perché sono scomparsi i distretti sanitari, a cui le normative nazionali davano il compito di organizzare la prevenzione, l’assistenza primaria e quella per le cronicità. “Visto che il governo non poteva accettare una legge in cui i distretti non fossero presenti, ha costretto la Lombardia a fare finta di istituirli, anche se in realtà non avevano nessun ruolo”, aggiunge Carreri. I distretti, come i dipartimenti di prevenzione, sono rimasti sotto la responsabilità delle Ats, ma senza funzioni ben definite. Anche per questo motivo, quando è arrivata la pandemia il sistema ha rischiato il collasso: “Nell’arco di pochi anni, dal ‘97 in poi, la prevenzione è stata dimezzata: quando io dirigevo gli uffici avevamo quindici dipartimenti e cinquemila operatori. Oggi ne abbiamo la metà”, ripete Carreri. 

Quando Maroni ha presentato la riforma al governo, le istituzioni centrali erano piuttosto dubbiose. L’allora ministra della Salute Beatrice Lorenzin decise di non impugnare la legge, ma di accoglierla come “sperimentale”: dopo cinque anni si sarebbe deciso se cambiarla o meno. I cinque anni sono trascorsi e la legge sanitaria varata dalla giunta di Attilio Fontana a novembre dell’anno scorso è il risultato di questa “sperimentazione”.

“Nell’arco di pochi anni, dal ‘97 in poi, la prevenzione è stata dimezzata: quando io dirigevo gli uffici avevamo quindici dipartimenti e cinquemila operatori. Oggi ne abbiamo la metà”

Vittorio Carreri, coordinatore del dipartimento di prevenzione pubblica regionale dal 1973 al 2003

E adesso che cosa è cambiato?

La nuova riforma sanitaria è stata approvata dopo sedici giorni di discussione in aula, al Pirellone. Il provvedimento, almeno in teoria, avrebbe dovuto seguire le indicazioni fornite dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas). La giunta però non ha preso molto in considerazione i suggerimenti proposti e ha modificato solo residualmente l’organizzazione ospedaliera e territoriale. Tra gli elementi di novità ci sono la re-introduzione dei distretti e la creazione dei presidi territoriali richiesti dal Pnrr: bisogna vedere che cosa succederà.

“Da Formigoni in poi si sono trovate tutte le strade possibili per inserire le strutture private dentro il servizio sanitario nazionale”, commenta a MilanoToday Vittorio Agnoletto, medico e professore a contratto all’Università di Milano. A detta di Agnoletto con il nuovo provvedimento la situazione peggiorerà, perché è stata sancita “l’equivalenza tra pubblico e privato”: un elemento che, in base alle norme nazionali, “potrebbe essere considerato incostituzionale”. Carreri ci tiene a sottolineare che le colpe non sono solo del centrodestra, perché sia nel 2015 sia nel 2021 sono stati governi nazionali vicini al centrosinistra a dare il via libera alle riforme della sanità lombarda.

Questo pezzo fa parte dell'inchiesta a puntate di Dossier sulla sanità lombarda Sanità Smontata. Per suggerimenti e/o segnalazioni scrivi a dossier@milanotoday.it

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