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Economia Duomo / Piazza San Babila

'A un mese dal fallimento di Trony Dps, siamo intrappolati in un limbo: né licenziati, né aiutati'

Alessandro Guerra, dipendente Trony Dps Group senza stipendio da mesi, attraverso MilanoToday lancia un appello a tutte le forze politiche e a Gre, titolare del marchio Trony: 'Sarebbe l'occasione di dimostrare che sono interessati ai lavoratori di un loro socio fallito'

Trenta giorni sono già passati ma nulla è cambiato: nell'estratto conto della famiglia Guerra continuano ad aumentare le voci in rosso - le uscite - ma manca ancora quella verde che ogni mese faceva ripartire da capo la clessidra del risparmio. Questione di numeri. E torneranno ricorrenti in questa storia perché le cifre, soprattutto quando non si hanno certezze, diventano un pensiero ossessivo. Un tarlo difficile da fermare con le sole promesse.

Sono trentotto, ad esempio, i chilometri che separano Robecchetto con Induno (Mi) da via Grassotto 7 a Milano, dove c'era una delle tanti sedi chiuse del negozio di elettrodomestici con l'insegna Trony. Settantaseimila, quindi, i metri che ogni giorno, tra andata e ritorno, Alessandro Guerra percorreva a bordo della sua auto per andare a lavorare. Tutte le mattine, fino al 17 marzo 2018, quando i referenti dello store di proprietà di Dps Group hanno avvertito tutto il personale con un messaggio - "La sede è chiusa, non presentatevi in negozio" - inviato con disinvoltura su Whatsapp.

Da quel sabato i suoi unici viaggi verso la città sono diretti in corso di Porta Vittoria, dove c'è il sindacato Filcams Cgil a cui lui e i suoi colleghi hanno affidato la sorte del loro limbo. Perché di quello si tratta. Hanno perso il lavoro ma ufficialmente non sono stati ancora licenziati e perciò non possono godere in alcun modo degli ammortizzatori sociali previsti dallo Stato, nell'attesa di trovare una nuova occupazione. Un dato di fatto, al momento, anche se "resta la speranza - come dice più volte l'esperto venditore durante la nostra conversazione - che il dialogo tra le parti porti a qualcosa".

Trony, l'appello di un lavoratore

Cinquant'anni, diciotto dei quali passati a lavorare in negozi di elettrodomestici, sempre con la voglia di un ragazzino. Un po' perché quella del venditore resta una delle poche attività in cui se perdi l'entusiasmo perdi anche clienti e lavoro, un po' perché quest'uomo originario di Ferrara quella voglia di fare - e fare bene - ce l'ha nel Dna. E poi come potrebbe perdere la voglia proprio adesso che ha una figlia di sei anni da crescere, una famiglia da portare avanti. Come potrebbe mollare ora, quando mancano altri diciannove anni per finire di pagare il mutuo per la casa. Una delle tante rate e 'ratine' da saldare ogni mese, per far girare l'economia. Sì, perché se si ferma Alessandro si rompe uno di quei piccolissimi ingranaggi che quotidianamente fanno muovere il sistema Italia. E come lui gli altri suoi circa cinquecento colleghi che da metà marzo sono stati catapultati in questa situazione da una gestione aziendale - evidentemente - fallimentare.

Il fallimento dei Trony di Dps Group

A fallire per il Tribunale di Milano è l'azienda Dps Group di proprietà dell'imprenditore pugliese Antonio Piccinno. La società era parte integrante del gruppo Gre (Grossisti riuniti elettrodomestici), titolare del marchio Trony, e complessivamente possedeva quarantatré negozi in Lombardia, Piemonte, Veneto, Liguria e Puglia. Attualmente il loro sito internet appare con i loghi di Vertex srl, società riconducibile sempre alla famiglia Piccinno e verso la quale, in un primo momento, erano confluiti alcuni degli store oggi con le serrande abbassate. "Vertex srl opera nel settore della distribuzione e vendita di elettrodomestici ed elettronica di consumo sia all'ingrosso, verso rivenditori ed affiliati a marchio Sinergy, sia al dettaglio, attraverso sessantatré punti vendita di proprietà a marchio Trony", recita la scarna pagina web ufficiale della catena.

Un presente 'povero' e inimmaginabile pochi anni fa. "La Dps - ricorda Guerra, mentre fissa l'insegna sbiadita del negozio di San Babila a Milano - sembrava una azienda florida. Nel 2007 aveva comprato gli otto negozi Penati-Euronics: tra Milano, Varese, Pavia e Novara. Le inaugurazioni erano sempre molto maestose. Poi nel 2012 - prosegue scavando nel tempo - aveva preso gli store della catena Darty e Fnac, tutto andava apparentemente a gonfie vele". Il vento tuttavia, per qualche recondita ragione, ha smesso di soffiare e la barca si è fermata.

Una situazione oggi chiarissima per chiunque si trova a passare davanti alle porte chiuse dei negozi milanesi di piazza San Babila, Portello, corso XXII Marzo, corso Vercelli, Abbiategrasso e Paderno Dugnano, dove in tutto sono rimasti a casa circa centoquaranta dipendenti. Anche se la direzione era evidente per il personale già dalla fine del 2017: "Nell'ultimo periodo - ricorda il cinquantenne - non vendevamo niente. Perché non avevamo merce. Per cui parlavamo tra di noi e ci facevamo forza a vicenda, come una terapia di gruppo, perché la strada era purtroppo chiara". Il paradosso è che proprio nel mese di dicembre, uno dei più rosei per il commercio, "avevamo pochissimi prodotti, l'azienda era sparita", accusa. "Il minimo della sensibilità e della professionalità - incalza ancora - si è raggiunto col messaggio su Whatsapp del 16 marzo. Pensa che molti colleghi sono andati lo stesso in negozio e si sono presentati per lavorare o almeno per avere la possibilità di capire meglio. Solo giorni dopo abbiamo ricevuto la lettera del curatore fallimentare. Dove ci veniva detto che siamo in quiescienza".

L'appello al Gre (Trony) e i negozi senza merce da dicembre

Una delle speranze del ferrarese e dei suoi colleghi è deposta nello stesso Gre, attualmente formato da dodici società. "Il gruppo con vari comunicati stampa ha ampiamente pubblicizzato che apriranno ben quaranta nuovi negozi. Noi abbiamo chiesto un incontro con loro, attraverso il sindacato, ma non lo abbiamo ottenuto. Allora - si domanda il dipendente nel limbo - ci chiediamo perché non pensano a noi: conosciamo il lavoro, i meccanismi del marketing interno al 'francising'. Anche a livello d'immagine, per loro sarebbe l'occasione di dimostrare che sono interessati ai lavoratori di un loro socio fallito". Noi di MilanoToday abbiamo provato a metterci in contatto con un responsabile ma dalla sede del gruppo, in viale Cassala 28 a Milano, ci hanno 'rimbalzato' invitandoci a parlare esclusivamente con l'incaricato stampa, Fabio Valli. Il portavoce ha spiegato che sulla questione relativa alla Dps Group, il Gre preferiva semplicemente chiarire la propria posizione, per evitare che si parlasse di fallimento generico di Trony.

"La riferita situazione di difficoltà della Dps Group e dei suoi punti vendita - scrivono quindi nella nota ufficiale - in nessun modo può influenzare la restante rete di punti vendita ad insegna Trony, gestita dagli altri soci Gre del tutto autonomi ed estranei alle vicende della Dps Group. Non è quindi possibile riferire genericamente i fatti in discussione al 'marchio Trony' come se le problematiche di uno dei soci riguardassero in qualche misura anche gli altri soci del gruppo o addirittura l'insegna nella sua totalità". Il comunicato, infine, conferma le parole del lavoratore in quiescienza e, forse, riaccendono un lume di speranza: "Il gruppo Gre ribadisce la propria volontà di proseguire nello sviluppo sul territorio italiano, annunciando un piano che prevede per il 2018 circa quaranta nuove aperture a marchio Trony".

Anche se - per la cronaca - alcuni di questi nuovi negozi, in realtà, hanno già fatto il loro esordio all'inizio dell'anno. Una sorta di beffa ulteriore per i dipendenti della famiglia Piccinno. "Si stava creando una dinamica strana. A Sesto San Giovanni un negozio già esistente, il Supermedia, aveva cambiato insegna diventando Trony da inizio anno. Per cui mentre noi stavamo chiudendo e senza merce - si sfoga Guerra - negli ultimi mesi capitava che arrivassero clienti col volantino chiedendo per le nuove offerte ma noi dovevamo spiegare loro che si trattava dello store di Sesto".

Un'altra grande speranza per i dipendenti nel 'limbo' è quella di un sano intervento politico. "L'unica cosa che chiediamo adesso - lancia l'appello il cinquantenne - è la maggior pressione possibile. A livello comunale, regionale e statale. A Milano abbiamo avuto un incontro con l'assessore al Commercio Cristina Tajani. Le abbiamo spiegato il caso e si stava valutando di mettere in pista un coordinamento per monitorare la situazione sul territorio. Anche perché gli store chiudono ma cosa succede dopo? I negozi sono lì, vuoti, non aspettano altro che la merce, noi e i clienti".

Il curriculum e gli ammortizzatori sociali quasi spariti

Poi ci sono gli ammortizzatori sociali o una nuova occupazione. Ma in questi due casi usare la parola speranza diventa più difficile. "Il mio curriculum vitae è bellissimo - spiega il ferrarese mentre insieme andiamo a vedere le serrande abbassate di alcuni negozi - ma oggi vale zero. Per la mia età e perché costa: ho venti anni di esperienza nel settore, ho lavorato nei posti vendita di Novara, Rho, Cesano Boscone e Portello. Sono stato anche capo negozio in passato e oggi ero responsabile del settore bianco: lavatrice, frigo, forni, climax e tutti gli elettrodomestici ad incasso". Oltre alle gioie, tra le sue esperienze si annoverano anche otto mesi di cassa integrazione nel 2015. Un miraggio ora che è stata eliminata per il settore del commercio.

Durante l'ultimo incontro al Mise (ministero dello Sviluppo Economico), il curatore fallimentare, Alfredo Haumpt, ha confermato la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione dei dipendenti. Quasi cinquecento persone che già non ricevono gli stipendi da fine gennaio. C'è, però, la possibilità che un competitors acquisti alcuni dei negozi ma le trattative sono in corso. Se dovessero andare male, non resta che l'unico ammortizzatore sociale a cui Guerra e i suoi colleghi potranno appellarsi: la Naspi, che dura due anni. Per i primi quattro mesi si prende l'ottanta percento dello stipendio, poi per ogni mese fino all'ultimo si prende il tre percento in meno, progressivamente. "Ci sono dipendenti che hanno scritto al curatore fallimentare di voler essere licenziati. Anche perché se dovessero trovare un lavoro non potrebbero nemmeno farsi assumere. E' proprio un limbo", chiosa, mentre scuote la testa e si prepara a raggiungere un gruppetto di colleghi preoccupati come lui. E dice: "La famiglia Piccini non ci ha tutelati, perché poi le conseguenze le stiamo pagando noi".

A questo punto le cifre contano e come. Per questo Alessandro e la compagna, una dipendente comunale, che circa cinque anni fa avevano deciso di acquistare la casa anche con l'idea di lasciare qualcosa un domani alla loro figlia stanno rivedendo tutto. E vuol dire tagliare le spese, ridimensionarsi magari svendendo la casa per prenderne una più piccola. Magari rinunciando alle passioni di una vita. "Due macchine e una moto vecchia di ventidue anni - una custom che speravo di non vendere mai - non sono più sostenibili per la nostra famiglia. Probabilmente inizieremo da lì. Dobbiamo rivedere tutta la nostra vita", afferma mentre ci stringiamo la mano, accenniamo un sorriso laconico ma sincero e ci auguriamo buona sorte.

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