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"Vite spezzate": il viaggio tra chi ha perso tutto per le leggi razziali (fascisti compresi)

Sportivi, scrittori e alunni delle elementari: al Memoriale della Shoah di Milano la mostra che rievoca le persecuzioni e le deportazioni subite da normali cittadini a causa delle leggi razziali promulgate da Mussolini nel 1938. Le immagini

Adele Pinto aveva 28 anni, insegnava in una scuola elementare quando lasciò Napoli per trasferirsi ad Alessandria d'Egitto. Un anno dopo fu richiamata in Italia ma fu sospesa dal suo lavoro, a "tempo indeterminato". Raffaele Jeffe era preside di una scuola, ma soprattutto era un visionario del calcio. Era il nome, l'uomo, dietro il miracolo Casale, la squadra di quel paesino piemontese che oggi conta poco più di 30mila anime e che fu capace di vincere uno scudetto di calcio nel 1914. Anche lui, dal nulla, fu "dispensato dal servizio". Alba e Lia Finzi andavano a scuola. Alba, la più grande, all'istituto magistrale Tommaseo di Venezia. Lia, la più piccola, alla elementare Alfredo Oriani. Per loro niente allontanamento dal lavoro, ma niente più scuola. Adele, Raffaele, Alba e Lia avevano una sola colpa: essere ebrei. Una colpa che nel novembre 1938, quando l'Italia di Benito Mussolini conobbe le leggi razziali, si pagava con la vita - letteralmente - o con tutto ciò che in quella vita c'era. 

Le loro storie, e quelle di tante altri, sono raccontate in "1938, vite spezzate", la mostra inaugurata da poco al Memoriale dello Shoah di Milano, il museo ricordo di piazza Edmond Jacob Safra nato nello stesso punto da cui si muovevano i treni con i deportati per Auschwitz. Per la prima volta fuori dalla Fondazione museo della Shoah di Roma, in esposizione sotto la Madonnina ci saranno foto, documenti, atti che raccontano cosa hanno significato per le persone le leggi razziali volute dal fascismo. 

C'è la foto di Adele Pinto con la sua famiglia a Napoli, c'è un poster che annuncia la sfida fra Casale e Juventus - poi vinta dai padroni di casa -, c'è un disegno fatto da Lia subito dopo l'addio alla scuola con dei soldati in divisa verde che sparano su altre persone. E ci sono anche gli atti di Enrico Salem, il podestà di Trieste - fascista convinto - poi costretto a fuggire proprio per scappare dalle leggi promulgate dal "suo" governo. 

Tutte le immagini, i disegni, i documenti, le storie sono divisi per "categorie": lo sportivo, l'intellettuale, il giornalista, la maestra. Così che ogni visitatore possa riconoscersi, immedesimarsi, in qualcuno, in storia di vita vissuta, in ricordi tangibili. E tra quel qualcuno ci sono anche i fascisti ebrei poi "puniti" dal regime. Perché l'obiettivo della mostra non è dividere, giudicare, accusare, ma spingere a riflettere. E anche per questo nel Memoriale - dova da poco ha aperto una biblioteca accessibile a tutti, curata dal centro di documentazione ebraica contemporanea - sono stati rinnovati anche i contributi ascoltabili all'interno delle "stanze della riflessione". In una c'è un'intervista di Editch Bruck, la sopravvissuta alla Shoah che disse "nascere per caso, nascere donna, nascere povera, nascere ebrea è troppo, in una sola vita". In un'altra c'è una testimonianza di Nedo Fiano, tra i più attivi testimoni italiani del massacro degli ebrei. E nella prima c'è una clip che racconta il primo ritorno, nel 1996, di Liliana Segre, milanese, superstite di Auschwitz e oggi senatrice a vita italiana. 

Davanti a quelle camere, a pochi metri dal binario da cui partivano i vagoni per i campi di sterminio, c'è un grande muro con la scritta "indifferenza". "Se le persone escono da qua con un dubbio noi abbiamo vinto", riflette una guida mentre passeggia tra le foto. Perché il dubbio vuol dire già aver battuto l'indifferenza. 

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