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Salvatore Borsellino: "Dobbiamo sentire il profumo di libertà"

Ieri sera al Teatro Galleria di Legnano, Salvatore Borsellino è stato protagonista di una serata, di un racconto toccante sulla mafia dalle stragi del 1992 alle infiltrazioni al Nord

Un racconto toccante a tratti rabbioso quello di Salvatore Borsellino, fratello minore di Paolo ucciso 19 anni fa dalla mafia a Palermo in via D’Amelio, che ieri è stato protagonista al Teatro Galleria di Legnano. Serata organizzata dal Movimento 5 Stelle di Legnano.

La serata è iniziata e finita con Salvatore che elevava, quasi a raggiungere il cielo, suo fratello, l’agenda rossa, simbolo della lotta alla mafia, che sparì il giorno dell’attentato dall’auto di Paolo. “Senza agenda mi sento nudo, sono tornato indietro a prenderla perché l’avevo dimenticata”, inizia così il racconto di Salvatore che fondò il “Movimento delle agende rosse”.

Anche Paolo aveva un rapporto stretto con l’agenda su cui annotava tutto, con la sua penna stilografica verde, ogni processo, ogni indagine dalla morte di Giovanni Falcone, suo collega e fratello, morte avvenuta 57 giorni prima il 23 maggio 1992. “E’ stata sottratta dall’auto a pochi metri da dove c’era Paolo. Nonostante esistano riprese e foto non si è mai arrivati alla verità. Dopo il processo di cassazione è stata messa una pietra tombale sulla giustizia. Prima o poi ci sarà la giustizia e qualcuno deve pagare”.

Giustizia e verità parole che riecheggiavano nell’aria, nella sala gremita di gente accorsa ad ascoltare il racconto di quel giorno, il 19 luglio 1992, quando un’ esplosione portò via suo fratello e gli uomini della scorta (Agostino, Claudio, Walter, Emanuela e Vincenzo), uomini i cui nomi sono spesso dimenticati come se la loro morte non fosse stata importante. “I ragazzi della scorta avevano un nome, mia madre volle incontrare le loro madri per baciar loro le mani. Paolo li considerava i suoi figli.  A Paolo saltarono le gambe e le braccia degli altri nulla.Per loro bastava una scatole delle scarpe per raccogliere i loro resti.

La seconda repubblica è fondata sulla stragi, sul sangue. Alcuni parlano di vecchie storie, ma il sangue di Capaci, di via D'Amelio non si è ancora asciugato. Dopo 20 anni di silenzio parlano di trattativa, di cui io ho sempre parlato dandomi del pazzo. Dopo la morte di Falcone lo stato poteva dare il colpo di grazia alla mafia, ma non lo fece”.

Parole di forte intensità che raccontano la rabbia non solo di un fratello, ma di un cittadino italiano. “Dopo la morte di Paolo e Giovanni hanno cambiato metodo: non facevano più lavorare i magistrati, li screditavano, non li facevano più lavorare. Il sangue provoca una reazione tra la gente”. È un racconto di rabbia, d’amore per un fratello perduto e per una terra lacerata, la Sicilia, Palermo, che Salvatore abbandonò subito, e di rimorso.

“Vidi mio fratello l’ultima volta per Natale e Capodanno ad Andalo in Trentino e gli chiesi perché non scappi anche tu, mi aggredì. Per amore è rimasto, per Palermo, per il suo paese che era l’Italia. Mi sento in colpa ho fatto scelta diversa, più di 40 anni fa scappai dalla Sicilia, la mia terra che poco a poco è stata distrutta, scempiata. Palermo era chiamata “la conca d’oro” perché dall’altura si vedevano gli agrumeti che parevano d’oro. A poco a poco sono spariti”.

La storia, dal Sud, dove è nata la mafia, prosegue al Nord con le infiltrazioni. “La mafia è come un cancro che entra in metastasi e aggredisce il nostro sistema. Voi non la vedete, noi vediamo i morti per la strada ci siamo fatti gli anticorpi. Qui è finanza, è dentro gli appalti, alterano la libera concorrenza”. “Mi chiedo da che cosa sono scappato?A cosa è servita la mia fuga?a niente”.

Salvatore alla fine della serata ha parlato di speranza: “Voi giovani siete la mia speranza, la mia forza. Mia madre ci disse, a me e a Rita, mia sorella, andate e parlate di Paolo. Per 5 anni l’ho fatto poi ho smesso e poi ho ripreso con rabbia. In seguito ho scoperto che i giovani mi fermavano per strada e mi invitavano a parlare. Mio fratello scrisse in una lettera ad un liceo, l’ultimo giorno della sua vita, “Sono ottimista perché vedo che i giovani hanno un’attenzione diversa verso la criminalità organizzata”. Da lì ho capito, peccavo di egoismo, avevo perso la speranza solo perché non capivo cos’era per lui.

Lottavo per me stesso per conoscere la verità. Lo giuro lotterò fino all’ultimo giorno della mia vita per poter cambiare il paese. Voi dovete riprendervelo. L’unica cosa che vi posso consegnare sono i miei sbagli. Ci deve essere patto generazionale perché i nostri errori non li commettiate più. Non andate via dal paese. Dobbiamo lottare per riprenderci la democrazia. Non credo che mio fratello si morto, vive nel cuore dei giovani”.

Paolo parlava di lotta alla mafia come “un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le nostre giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo di compromesso morale, dell’indifferenza della contiguità e quindi della complicità”.

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