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Dossier Il caso

Così è caduta la tessera italiana di Domino's Pizza

Perdite e debiti milionari: il business di ePizza, società che aveva firmato i contratti per l'utilizzo del marchio, non è mai decollato. Ecco chi ci ha investito e perché si va verso il fallimento con più di 100 dipendenti a casa

5 ottobre 2015. Una mattinata di nebbia con una dozzina di gradi è pronta a cedere il passo a qualche nuvola. Un inizio di autunno piuttosto cupo caratterizzato da piogge intermittenti. Da poco più di 5 mesi hanno aperto i cancelli di Expo. In tanti ci credono, mentre ad altri è già chiaro che l’evento, presentato come un luogo per la presentazione delle avanguardie alimentari ed energetiche del futuro, sarà soprattutto un luna park culinario buono come sfondo ad accordi economici di respiro molto meno lungimirante.

A una decina di minuti di auto dal sito su cui sono sorti i padiglioni e Palazzo Italia si sta inaugurando, in via della Martinella, la prima sede di Domino’s Pizza in Italia. Il marchio americano ha deciso di fare un passo importante e anche un po’ impopolare nella patria della pizza con piani di sviluppo importanti. Del resto a una società statunitense attiva dal 1960 presente in 80 mercati con circa 12mila punti vendita e incassi per 89 miliardi il coraggio di tentare un’avventura non può mancare. L’avventura però non sta terminando nel migliore dei modi, come testimonia l'abbassamento delle serrande dei negozi di questi giorni, e una situazione debitoria della società italiana (ePizza) che ha l’accordo per l’utilizzo del marchio in Italia che da inizio anno è al vaglio del tribunale di Milano.

Domino's Pizza nel mondo Domino's Pizza è stata fondata del 1960 dai fratelli Tom e James Monaghan in Michigan e oggi è tra le prime grandi catene di pizzerie negli Stati Uniti d'America con oltre 11mila pizzerie in 70 Paesi nel mondo. Dal 1998 fa parte del gruppo Bain che nel 2004 ha quotato Domino's Pizza alla borsa di New York. Nel 2021 ha raggiunto una capitalizzazione di mercato di 20,5 miliardi di dollari, con un fatturato globale di 11 miliardi. A oggi per numero di transazioni Domino's compete con colossi come Amazon, eBay ed Apple.

Lo sbarco in Italia

L’avvio è ambizioso ma cauto. L’idea è quella di portare il marchio in Italia, partendo da Milano, in regime di franchising. A guidare lo sbarco c’è un giovane manager trentaseienne ma dal curriculum già importante nel settore: Alessandro Lazzaroni (che lascerà nel 2020 per passare prima a Burger King e poi a Crazy Pizza di Flavio Briatore). Già passato per McDonald’s il manager alla prima uscita sottolinea come Domino’s punti alla qualità che passa per i prodotti tipici italiani e al servizio a domicilio veloce e competitivo. Il tutto in un periodo in cui le piattaforme del delivery come Glovo o Deliveroo non sono ancora capillari nel mercato italiano. Ed è proprio su questo punto che insistono i piani di sviluppo di ePizza.

Il 2 marzo del 2015 la società italiana ePizza firma il contratto con la società statunitense per lo sfruttamento del marchio. L’accordo prevede una durata di 10 con una opzione per ulteriori 10. A coordinare le operazioni con due consulenti finanziari che hanno il compito di trovare ossigeno c'è lo stesso Lazzaroni. Più tardi arriveranno i nuovi ingressi nella compagine societaria attirati dal business plan di ePizza e dalla sua presunta carica innovativa nel settore delle consegne a domicilio. La maggioranza delle quote (45,1%) è in mano alla società di diritto britannico EVCP Growth Holdings Limited (posseduta dall’omonimo fondo lussemburghese)  del finanziere italiano Marcello Vittorio Bottoli, oggi presidente del Consiglio di amministrazione. Troviamo poi la Legendary Investments srl (35,4%), società creata ad hoc per veicolare l’investimento di altre società, tra le quali compare anche la Ithaca 2 di Luigi Berlusconi (figlio di Silvio).

Scendendo verso il basso la Italian Retail (12,7%) guidata dallo stesso Alessandro Lazzaroni e che dal 2015 investe in aziende innovative. Con il 4,1% c’è Aldo Sutter in persona, presidente e amministratore delegato dell’omonimo gruppo attivo soprattutto nel campo della produzione di prodotti per la pulizia (il famoso Emulsio Sutter, notissimo negli anni ’90 grazie alle pubblicitià in tv), a seguire la Vfm (1,27%), legata da rapporti societari alla Italian Retail, la Aletti Fiduciaria (1,13%) del gruppo Banca Popolare di Milano e infine con uno 0,2% la Elilani di Raffaele Roberto Vitale, nipote del defunto Guido Roberto Vitale, decano del capitalismo italiano morto nel febbraio del 2019. Insomma, un bello spaccato di potere economico nostrano con la ormai presenza fissa di fondi esteri e fiduciarie, ormai un’abitudine nei capitali del Belpaese.

A fare gola al momento della costituzione non è forse tanto la pizza formato Usa ma l’abbozzo di piattaforma tecnologica per l’acquisizione di dati e gusti dei clienti e le conseguenti consegne. L'algoritmo è una potenziale miniera d’oro su cui in seguito arriverà però la concorrenza di giocatori come Just Eat, Deliveroo, Glovo, Uber e tutti gli altri in grado di sviluppare algoritmi più strutturati e ricercati. ePizza nasce infatti come Start up innovativa e per le prime aperture segue la strategia calata da Domino’s aprendo nel 2015 una decina di punti vendita a Milano che la stessa ePizza gestisce direttamente, a fronte di un investimento tra i 270 e i 350mila euro. Simili cifre sono finite a cavallo tra il 2018 e il 2019 nell’apertura dei locali a Bergamo, Bologna, Torino e Modena). Il 2019 è l’anno di quello che dovrebbe essere l’avvio dell’espansione definitiva, tanto che a inizio 2020 il marchio conta 29 punti vendita, 23 gestiti direttamente da ePizza e 6 in sub-franchising. L’obiettivo dichiarato è quello di arrivare ad aprire 880 punti vendita al 2035.

Previsioni errate, concorrenza e covid

Due anni dopo però, complice sì la pandemia da covid-19, ma anche vendite e fatturati ampiamente al di sotto delle aspettative già nei primi quattro anni di esistenza della società, il tracollo. Un tema già evidenziato infatti anche all’interno del bilancio 2020 (l’ultimo depositato) e che già sottolinea le difficoltà di un soggetto che segna perdite per 7 milioni di euro, in aumento sui 5 al 31 dicembre 2019.

Del resto, spulciandolo, si legge come il collegio sindacale suoni il campanello d’allarme nella sua relazione: prende atto delle valutazioni dei soci per mettere in campo strategie per la continuità aziendale, fino a quel momento di fatto garantita dalle iniezioni di capitali dei soci stessi, ma sottolinea: “nell'ipotesi in cui le circostanze (previste dai soci, ndr) non si verificassero, è necessario che gli amministratori procedano ad un attento riesame e a una nuova valutazione circa la sussistenza del requisito della continuità aziendale”. Tradotto: se le previsioni saranno sbagliate, ePizza è destinata a chiudere.

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Il lockdown insomma arriva a peggiorare una situazione che ha visto comunque negli anni l’aumento della concorrenza nel settore delle consegne a domicilio e soprattutto costi di gestione troppo elevati rispetto alla presa del business. Il tutto condito dalla contrazione dei ricavi subita dai sub-affiliati a ePizza da cui la stessa ha avuto sempre più difficoltà nel recupero dei crediti. Eppure, nelle ultime relazioni agli investitori ePizza cerca di vedersi in una crescita quantomeno vertiginosa: con ricavi da vendite previsti tra il 2022 e il 2026 passare da 13,2 milioni a 44,5. Forse un piano troppo ambizioso, visti gli 8 milioni racimolati nel 2019, ultimo anno pre-pandemia.

La pratica in tribunale

Così nel corso del 2020, anno in cui esplode la pandemia, ePizza taglia quasi la metà dei dipendenti che passano da 439 a 276, oggi rimasti in 114. Ma a pesare è l’esposizione debitoria: a fine 2020 si contano 10,4 milioni di euro, di cui 6,7 in scadenza a 12 mesi. Situazione difficile contando per altro che 4,3 milioni di questi debiti sono verso le banche. ePizza decide così nel 2022 di chiedere la cosiddetta procedura di composizione negoziata con cui, in sostanza, si mette al riparo il capitale dalle pretese dei creditori con la presentazione di un piano ad hoc per il rilancio della società.

Non si tratta dunque di una istanza di fallimento vera e propria, ma di un tentativo di ripresa che sembra però in salita; la situazione dei debiti scaduti e in scadenza è importante e un eventuale percorso di risanamento appare in salita. Il tribunale di Milano nell’aprile scorso ha ammesso la società alla procedura, fissando la scadenza al primo luglio scorso. Data entro cui i piani sarebbero dovuti arrivare al vaglio dei giudici.

Al momento però sul destino della procedura bocche cucite da tutti gli attori coinvolti che contatti da Dossier non hanno risposto. Il telefono dell'amministrazione di ePizza, squilla a vuoto, e l'ultimo bilancio depositato continua a essere quello del 2020. Sulla carta, dunque, la situazione è quella che vi abbiamo raccontato, nel reale c'è che i punti vendita hanno iniziato ad abbassare le serrande. Di certo, come ha potuto verificare Dossier, pende un decreto ingiuntivo intentato da uno dei creditori di ePizza e registrato al tribunale di Milano lo scorso 11 marzo. Non si può escludere che il marchio venga rilevato da altri, ma pare proprio che questa pizza americana in Italia non si abbia da far. A rimanere alla finestra nella città metropolitana di Milano ci sono anche i 35 dipendenti segnalati a Buccinasco (utilizzata dal gruppo anche come centrale logistica), i 7 di Sesto San Giovanni e i 73 addetti impiegati nei 12 locali presenti nel comune di Milano.

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